domenica 8 settembre 2013

Barbera e champagne (per Rosi)


          di Giovanni Bogani

VENEZIA. Il trionfatore di Venezia è lui, Gianfranco Rosi, quarantanove anni, documentarista, l’autore di “Sacro Gra”, il film che segue le vite di alcuni personaggi – desolati, bizzarri, soli – lungo il Grande raccordo anulare di Roma.  

          Rosi ha grandi occhiali tondi, e ricorda un po’ Michael Nyman, il musicista inglese di “Lezioni di piano”. I suoi film non sono così conosciuti al grande pubblico, anche se sono stati premiati in molti festival internazionali. Il suo film precedente, “El sicario”, la sconvolgente confessione di un trafficante di droga sudamericano, aveva conquistato proprio alla Mostra del cinema di Venezia il premio Fipresci della critica internazionale, ed era stato votato miglior documentario italiano dell’anno.


        

  Ma un Leone d’oro è un’altra cosa. E’ il premio di eccellenza in un festival che vedeva in competizione grandi maestri, film narrativi tesi, sconvolgenti, scandalosi. E il suo è un documentario: il primo a vincere un Leone d’oro a Venezia. Un successo tanto travolgente quanto inaspettato: che farà anticipare l’uscita in sala del film, già prevista per il 26 settembre.

          “E’ qualcosa che non mi aspettavo”, dice il regista, intercettato all’hotel Excelsior del Lido di Venezia, poche ore dopo la vittoria. “Sono felice per le persone che appaiono nel film, per tutti coloro che mi hanno aperto le porte della loro vita. Quello che vediamo nel film è solo la punta dell’iceberg, di un lavoro durato tre anni”, ricorda. “C’è moltissimo materiale che non ho potuto montare nel film, storie che proseguono, altre che sarebbe stato bello raccontare”. Rosi doveva tornare subito negli Stati Uniti, dove vive: “Invece questa vittoria mi porta a rimanere in Italia, per seguire l’uscita del film”.


          Il cinema italiano non vinceva a Venezia dal 1998, l’anno di “Così ridevano” di Gianni Amelio. Quanto avrà influito il fatto che presidente della giuria fosse un regista italiano di immenso carisma e prestigio come Bernardo Bertolucci? Ad Alberto Barbera, direttore della Mostra, il compito di rispondere: “Quando c’è presidente della giuria un italiano e i film italiani non vincono, c’è polemica perché non sono stati premiati. Quando un film italiano vince, ci si chiede se sia stato premiato perché è un film italiano. Sono dietrologie assurde. Semplicemente, nove giurati provenienti da paesi diversi hanno condiviso un palmarès”.

          Gli chiediamo se il palmarès sia stato condiviso all’unanimità. “No, non è stato un Leone all’unanimità. Ma non ci sono state contrapposizioni frontali: chi sosteneva altri film non era contrario al Leone a ‘Santo Gra’. La riunione di giuria è durata tre ore e mezza. E posso testimoniare che non c’è stata nessuna manipolazione né  prevaricazione da parte di Bernardo Bertolucci. Così come nessuno dei giurati aveva atteggiamento di sudditanza verso di lui. Solo il grande rispetto che Bertolucci ha meritato con tutta la sua carriera”.
 
        Riguardo al premio per l’attrice Elena Cotta, protagonista di “Via Castellana Bandiera”, esordiente nel cinema a ottantadue anni, dopo una vita di teatro, Barbera dice “a proporre il premio per lei sono stati dei giurati stranieri. Si è parlato di una rosa di tre o quattro attrici, e alla fine si è imposto il nome di Elena Cotta”. 

          Colpisce, in questa edizione della Mostra, l’ossessivo ricorrere – nei film – di un tema: quello della famiglia disgregata, spappolata, dominata da violenze silenziose che esplodono. Violenze sulla donna, violenze sulle figlie. Come se molti film si fossero raccolti attorno a un’idea, a un tema. Per caso. O forse no. “Se guardate la cronaca nera, non passa giorno che non ci sia una cronaca di violenza familiare”, dice Alberto Barbera. “Che il cinema intercetti questo tema è normale. Che ci siano dei film su questi temi non è che una delle conseguenze della crisi della società. Noi, certo, non abbiamo ‘organizzato’ i film attorno a un tema. Quando vedi un film, ti piace e non sai di che cosa parlerà il successivo”. 

          Sono stati millecinquecento, dice Barbera, i film visionati. Tra questi, centocinquanta film di finzione erano italiani, ai quali vanno aggiunti settanta documentari. “Purtroppo, alla quantità non corrisponde sempre la qualità. Si fanno molti film, ma girati in fretta, senza fare attenzione alle sceneggiature, con poco tempo per girare. E alla fine i prodotti non vengono bene. Il cinema italiano deve ritrovare una qualità media alta: non sarà una singola commediola o commediaccia a salvarne le sorti. Quella farà solo la fortuna di quel produttore”.


          Uno dei film italiani di quest’anno, però, gli ha dato un dispiacere: è quello di Daniele Luchetti, “Anni felici”, che sarà presentato al festival di Toronto. “Daniele mi ha detto subito: ‘mi dispiace, ma non me la sento di venire a Venezia’. Ha preferito andare a Toronto. E’ uno strano terrore di venire a Venezia, di confrontarsi col festival; non lo comprendo appieno, ma lo rispetto. Però è l’unico film che non è venuto. Oltre a quello di McQueen: Steve mi ha spiegato che per loro, in questo caso, il mercato americano era troppo importante. Ma è l’unico regista che mi ha creato un dispiacere”.

giovedì 5 settembre 2013

Aspettando un colpo di scena che non arriverà mai: "Une promesse" di Patrice Leconte

Patrice Leconte presenta fuori concorso alla 70. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia "Une promesse", con protagonista una triade very british style.

Tratta da una novella di Stefan Zweig, la pellicola, ambientata nella Germania di inizio Novecento, propone una trama al quanto banalotta: giovane e bella moglie (Rebecca Hall) di attempato e ricco uomo d'affari (Alan Rickman), si invaghisce del giovane e affascinante, ma povero, assistente di quest'ultimo (Richard Madden, noto al grande pubblico come Robb Stark della serie televisiva "Il trono di spade").
A frenare la messa in atto del loro sentimento amoroso, non è solo l'affetto e la stima provata nei confronti dell'ottimo Alan Rickman, ma anche e soprattutto il trasferimento del bell'Adone oltreoceano per questioni lavorative. I due amanti, quindi, non consumeranno mai carnalmente la loro passione (nonostante le numerose provocazioni del ragazzo),  promettendosi però di ricongiungersi al ritorno di lui in patria; ha inizio così un esasperante rapporto espistolare interrotto dall'immimente arrivo della Grande Guerra.
In tutto ciò, il marito pare quasi non accorgersi dello svolgersi degli eventi, se non quando in punto di morte rivelerà alla moglie le sue reali intenzioni, ossia di fare in modo che la donna amata e il loro figlioletto, non rimanessero soli dopo la sua dipartita, e ha quindi permesso che questo amore clandestino avesse luogo, pur essendone allo stesso tempo geloso.
A guerra conclusa, dopo svariati anni, l'avvenente assistente, ormai divenuto un maturo uomo d'affari, si ricongiungerà con la sempre affascinante Rebecca Hall, e invece di dare finalmente libero sfogo alle loro voglie più recondite, per un'altra trascinata porzione di pellicola non accadrà nulla, se non un castissimo e agognato bacio a chiusura del film.
E dove sta il sesso che il pubblico tanto attende?
E soprattutto, non appare troppo forzato ed eccessivo il pathos che l'attore Richard Madden carica in ogni situazione, dalle più alle meno consone? Ogni tanto verrebbe voglia di prenderlo a sberle per farlo rinvenire.
Per quanto riguarda Rebecca Hall fin quando non svela il suo amore segreto, risulta pienamente nel ruolo affidatole per poi ricadere nella stessa pateticità del suo amante.
Alan Rickman come sempre impeccabile e assolutamente godibile.
Ultimo appunto al regista, il quale talvolta compie dei movimenti di macchina frenetici, immotivati e azzardati, che rievocano un certo cinema alla Lars Von Trier.
Film riuscito a metà, soprattutto per ciò che riguarda il finale; sarebbe stato piuttosto preferibile il mostrare fino in fondo l'incoronamento totale di questo tanto bramato amore o al contrario lasciare spazio alla drammaticità con un'interruzione secca della relazione.
Leconte preferisce invece dare una svolta melodrammatica allo stile della Hollywood classica che può lasciare un po' insoddisfatto il pubblico di oggi.


di Francesco Foschini e Martina Nocella

mercoledì 4 settembre 2013

Per esempio, Scarlett




di Giovanni Bogani

VENEZIA. Ha avuto coraggio, Scarlett. Mentre approda al Lido di Venezia, con una canottiera a righe bianche e nere, pantaloni neri a vita alta, tacchi a spillo, e quell’aria bionda, luminosa, morbida che ha fatto innamorare mezzo mondo, pensi al film che ha fatto.

         Un film praticamente senza dialoghi, tutto affidato a lei, ma con un personaggio non troppo chiaro. Un film in cui l’attrice di “Lost  in Translation” e dei film di Woody Allen, adesso ventisettenne, rischia anche il nudo integrale, in più di una scena. Un film rischioso perché Scarlett nel film è un’aliena. Non ha disposizione parole, e quasi sempre deve guardare fisso, nel vuoto. Intorno, il più desolato dei paesaggi, il vuoto verde e piovoso delle Highlands scozzesi. Un deserto umido, popolato di uomini soli.

         Ha rischiato, Scarlett. Non c’è romanticismo, nel film. La sua icona di ventenne graziosa qui l’ha scambiata con un dna di aliena, e con un caschetto di capelli neri. Un film rischioso, per un progetto al quale lei lavorava, insieme al regista di videoclip Jonathan Glazer, da almeno otto anni.




         Il film, tratto da un romanzo di Michel Faber, edito in Italia da Einaudi, è già stato presentato al festival di Telluride, e dopo Venezia sarà proiettato al festival di Toronto. Qui ha avuto un’accoglienza non troppo felice. I fischi, alla proiezione stampa, hanno superato gli applausi. Ma quando lei appare all’incontro con i giornalisti, torna il sole. 

         Scarlett, come ha affrontato questo personaggio?
         “Non avevo un’idea preconcetta per prepararmi a questo ruolo. E’ un personaggio che parte come tabula rasa, essendo un’aliena. Nella prima giornata di set, ho capito dove doveva andare questo personaggio. Ma mi ci sono volute due settimane per entrare davvero in lei”.

         Qual è, per lei, il tema vero del film?
         “Non si fanno film sui temi; si raccontano delle storie.e questa era già tutta nel romanzo di Michel Faber, da cui abbiamo tratto il film”.


         Ma è vero che avete girato anche con delle telecamere nascoste, per riprendere le reazioni di persone vere, che avete inserito nel film?
         “Sì. Jonathan Glazer voleva che il film avesse un aspetto realistico: per questo ha fatto costruire delle cineprese piccolissime. Ce ne erano otto che riprendevano da punti di vista diversi. In una scena cado rovinosamente in una buca del marciapiede, Beh, è interessante notare la reazione della gente: alcuni mi fissavano e continuavano a camminare; altri mi riprendevano col telefonino, senza aiutarmi. Abbiamo girato gran parte del film senza che la gente se ne accorgesse”.

         Che tipo di esperienza è stata, per lei, girare questo film?
         “Ovviamente, diversissima da ogni altro film che ho girato. Questo è un esperimento puro, diverso dal cinema narrativo. Interpretarlo, rispetto ai film più ‘classici’, è stato come usare dei muscoli diversi che non sapevi di avere. Per me è stata una sorta di terapia”.

         Quale è stata la scena più difficile da interpretare, per lei?

         “E’ stata quella con Adam”. Adam Pearson non è un attore: è un uomo affetto da neurofibromatosi, una malattia che provoca tumori benigni che deformano il corpo. Nel suo caso, il volto. In una parola, Adam è come l’Elephant Man del film di David Lynch.  “Adam non è un attore: è stato difficile farlo sciogliere, prenderlo alla sprovvista mentre non era sulla difensiva. C’è questa scena in cui io gli carezzo il viso, e il collo: credo che lui, con la sua ritrosia, cercasse di proteggere la sua vulnerabilità”. 



Falce e rossetto. Incontro con le Femen

di Giovanni Bogani

La rivoluzione glam. Falce e rossetto. Macché baffoni, operai, proletariato: loro hanno inventato la rivoluzione in topless.

Loro chi? Le Femen. Sono belle, bionde e nude. Invece di far parte del cast di un film di 007, stanno dentro quello strano film sempre più folle che è la nostra vita. Costellata di telegiornali, di foto su Internet. La loro potenza mediatica è esplosiva: arrivano in un luogo, mostrano ai fotografi i loro seni nudi e gli slogan che, di volta in volta, vi scrivono sopra. Sono dei dazebao in movimento, dei telegrammi recapitati all’umanità con la forza assoluta dei loro corpi. Sono gli ideogrammi di una rivoluzione chic.




Insomma, un fenomeno non da poco. Delle ragazze ucraine che per combattere la mercificazione del corpo femminile usano il corpo femminile, e il suo immenso potenziale di magnetismo, di seduzione. Loro sono più pop delle Marilyn ripetute da Andy Warhol. E non riesci a decidere se combattono per un mondo migliore, o se prima di tutto non sono perfette pubblicitarie di loro stesse.

Per capirci qualcosa di più, era utile essere a Venezia, ieri. Perché c’era, tra le proiezioni speciali, l’anteprima mondiale di “L’Ucraina non è un bordello”. Il film che racconta origini, presente e futuro del movimento Femen. Lo ha diretto una ragazza che potrebbe essere una di loro: bionda, giovane, bellissima. Si chiama Kitty Green, è australiana ma col trucco: la madre è ucraina, e lei con le Femen si intende benissimo. Ha passato quasi un anno con loro, in uno di quei casermoni ex sovietici che mettono tristezza solo a guardarli un minuto, così densi di cemento e di rassegnazione, da dove pensi impossibile progettare niente di più che gettare la spazzatura al mattino. Sembra impossibile che da lì siano venute fuori delle pasionarie da copertina patinata. Ketty ha partecipato alle azioni delle Femen, si è fatta arrestare con loro a Roma; ha parlato con le più coraggiose, si è fatta raccontare la loro vita. E ce la mostra. In un film vivace, ben filmato, ben montato, non agiografico né banale.
        


         Apprendiamo che le Femen sono nate cinque anni fa. Sentiamo parlare alcune di loro, le vediamo allenarsi: perché, da soldatesse della bellezza e della guerriglia mediatica, devono imparare a scappare in fretta, e a proteggersi dalle botte della polizia. Vediamo alcune delle loro azioni: far suonare le campane all’impazzata in una chiesa di Kiev, bloccare gli ingressi alla metropolitana, rischiando le botte. Oppure in Turchia, truccarsi da donne islamiche, con l’hijab, e da donne sfigurate con l’acido.

         Però, tra le pieghe del film, viene fuori qualcosa di strano. Per esempio, nell’azione che le Femen fanno in Turchia, i costi sono sostenuti tutti da uno sponsor, un produttore di lingerie. E per un’altra azione di protesta, sentiamo il loro leader, il loro capo – un maschio! Si chiama Viktor – dire: “Quella, se non fa bene la sua performance, i suoi 200 dollari se li scorda”. Come un produttore di cinema, o un impresario teatrale. E in un’altra occasione apprendiamo che vendono T-shirt e altro con il logo Femen. Tutto un universo di merchandising che è un po’ lontano dall’immagine di rivoluzione che abbiamo noi.

         Insomma: né Lenin, una cui frase è pure tatuata sul decolleté di una delle ragazze – “studiare, studiare, studiare” – né Fidel Castro, e neppure Cristo o San Francesco, rivoluzionari quanto e più degli altri. La rivoluzione delle Femen passa dalla carta di credito. E dai media. Combattono la mercificazione, se si vuole, mercificandosi. Però la vita che si sono conquistata è di gran lunga migliore di quella di tante loro coetanee.

“In Ucraina oggi prostituirsi sembra una scelta obbligata. Le ragazze non vengono tenute in nessun conto nella società. A chi vuole trovare un lavoro viene proposto solo di andare a letto con chi glielo può procurare”, dice Inna all’incontro stampa. “Se non vogliono andarci, quel lavoro se lo scordano. L’unica prospettiva è diventare una schiava in famiglia o lavorare per il turismo sessuale. Noi combattiamo contro tutto questo”.


Loro sì che ci sono riuscite. Rischiando le botte della polizia e il carcere. Però adesso sono luminose, perfettamente truccate, con i tacchi a spillo, i fiori tra i capelli, non hanno lividi, e sono delle dive a tutti gli effetti. Dimenticavamo: adesso vivono in Francia.  

martedì 3 settembre 2013

Mia Wasikowska protagonista di Tracks

VENEZIA. E’ un bel film, “Tracks”, applaudito ieri in concorso alla Mostra del cinema di Venezia. E curiosamente, è il terzo ritratto di una donna ostinata, nei primi giorni del festival di cinema più importante d’Italia. 

Il primo era quello tratteggiato da Sandra Bullock in “Gravity”: una donna che, da sola, in mezzo allo spazio, perduta nel nulla, cerca il modo di tornare a casa, con una probabilità su un milione di farcela. La seconda donna ostinata è la protagonista del film italiano in concorso, “Via Castellana Bandiera”: una vecchia che, per non lasciar passare un’auto che viene in senso opposto, ingaggia una battaglia di ostinazione, di sfinimento, di orgoglio che ha del sovrumano.

La terza è lei, la protagonista di “Tracks”. Una ragazza di vent’anni che decide di attraversare il deserto australiano. Da sola, con un cane e quattro cammelli. E basta.
Nel film, questa donna ha il volto bello e quasi infantile di Mia Wasikowska, attrice australiana di origini polacche, ventitré anni, già un piccolo mito per le ragazze che la aspettavano, ieri, diverse ore prima del suo passaggio sul red carpet. La donna che interpreta è esistita davvero: si chiama Robyn Davidson. Quel viaggio, Robyn lo fece nel 1977. Ne tirò fuori un libro, che in Australia è un best seller assoluto.
Un viaggio di tremila chilometri, a piedi, da un posto qualunque pieno di erbacce fino all’Oceano Indiano. Attraverso deserti, terre spaccate dal sole, serpenti, sete, calore. In uno dei territori più secchi e bruciati del mondo. Un viaggio lento, solitario. Ai confini dell’allucinazione. Da una storia così, si può tirar fuori un film noiosissimo o uno entusiasmante. Il regista John Curran è riuscito nella seconda cosa. Mia Wasikowska è brava a non esagerare, a non caricare sul patetico. Va a muso duro, con la paura di una ragazzina e la testardaggine di un maratoneta, nel suo percorso. Affronta i cammelli che deve addestrare, va loro così vicino da rischiare di farsi male. E affronta tutto. Il personaggio, e con lui anche l’attrice.
Il film vi ricorda “Into the Wild”? Vero. Ma non c’è niente di male. Non conta tanto il che cosa si racconta, ma il “come”. E qui, il “come” è quieto, possente, mai troppo lezioso, mai troppo sentimentale, mai inutilmente estetizzante. Quello che non si capisce – e che lascia qualche dubbio su tutto il senso del film – è perché Robyn vada. Quale molla la spinga davvero, quale sia il motivo del suo rischiare la vita per arrivare. Arrivare dove, poi? Che cosa la spinge ad essere una sorta di San Francesco del continente australe, ascetica e ostinata. “Voglio solo essere me stessa”, dice a un certo punto. E: “Mi piacerebbe pensare che una persona normale può esser capace di qualsiasi cosa”. Beh, forse nella sua semplicità, è questo il senso del film. E di ogni grande impresa. Non esistono gli eroi


La voce di Berlinguer presentato a Venezia

VENEZIA. Berlinguer, gli vogliono ancora bene. “La voce di Berlinguer”, film documentario di Mario Sesti e Teho Teardo, presentato ieri fuori concorso a Venezia, ripercorre con affetto la parabola dell’ultimo grande leader del Pci. A partire dalla fine: da quell’ultimo discorso, portato in fondo nonostante il malore che lo aveva colpito, e che lo avrebbe portato alla morte. Mentre la folla metà capiva, metà no, e gridava il suo nome.

Berlinguer si passa un fazzoletto sulla bocca, continua a parlare, non osa chiedere aiuto a chi gli sta vicino. Il suo vacillare, il suo tener duro. Non c’entrano destra e sinistra. C’entra il destino, la fine di un uomo. La sua grandezza, nel morire. Muore sul palcoscenico, come Molière.

“La voce di Berlinguer” è veramente quel che il titolo promette. Mario Sesti, giornalista e direttore del festival di Taormina, lascia che sia la voce dell’uomo politico a far da fil rouge a tutto il film. Con, sopra, immagini d’epoca e di film d’autore. Alla fine, viene fuori il racconto di un partito che non c’è più. Una folla compatta, coesa, entusiasta. Convegni del partito, piazze. E facce. Basettoni, baffi, maglioni a collo alto, camicie di terital. Militari con la sigaretta di traverso.

Non ci sono commenti. Solo le immagini di film come “La commare secca” di Bertolucci, o di “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini, fotografia dell’Italia degli anni ’60. Per ricordarci come eravamo. Per dire, a quelli di noi che non c’erano, com’erano i volti di quell’Italia lì. Meno glamour, e così vera.

Piccola patria di Alessandro Rossetto

VENEZIA. Le prime inquadrature sono dall’alto. E mostrano una pianura che sembra infinita. Una strada dritta, che sembra andare senza fine, camion e auto in fila, come in un plastico. Campi coltivati, lamiere di Eternit, capannoni. E un hotel nero come un monolite kubrickiano. La musica che accompagna questa prima sequenza è solenne e terribile, e molto bella. Una specie di coro sinfonico in cui però, piano piano, isoli le parole “Vardate ‘ntorno” e “L’acqua z’è morta desperà”. O qualcosa del genere.

Come, l’acqua è morta? Che cosa significa? Lo scopriremo nel film, “Piccola patria” di Alessandro Rossetto, film d’esordio tagliente e disperato, acuminato come un chiodo. Presentato ieri, e accolto da applausi, nella sezione Orizzonti di Venezia.

L’acqua è morta, perché tutto è morto. I rapporti umani, prima di tutti. Ci sono padri cinquantenni che pagano ragazzine per eccitarsi, e ragazzine che si offrono – a pagamento – per la cosa con assoluta naturalezza. Per gli schèi. Solo per quello. Non ci sono quasi gesti di calore, intese di nessun tipo, in un mondo di lavanderie, di camion, di strade. Una ragazzina si offre per denaro. La sua amica fa lo stesso: e a casa sua, il padre sta eternamente sul divano di casa, senza far niente, maledicendo il mondo e gli stranieri che hanno invaso quell’angolo di Italia.

Si potrebbe dire che la visione del film è fin troppo manichea. Un’Italia di meschini, mediocri, ignoranti, bugiardi per vocazione, che vanno in chiesa e fanno zozzerie inenarrabili a casa. E stranieri – albanesi, in questo caso – che sono buoni, ingenui, inermi. Fa pensare a una sorta di razzismo al contrario.

Dall’altra parte, un’Italia ottusa, tutta Lega e Chiesa, dove i figli - e le figlie – sono fuori controllo, gli uomini adulti sono vigliacchi, prepotenti, pericolosi. Con accenni anche a relazioni incestuose – il cinquantenne che rabbonisce la sorella abbracciandola un po’ troppo – e insomma, tutto il marcio più marcio che c’è. Questa rappresentazione può sembrare eccessiva, fuori dalle righe, ingenerosa. Un mondo di cattiveria, e di incomunicabilità al confronto del quale Antonioni è rose e fiori. Un mondo senza speranza, che ha azzerato ogni umanità.

Questo dal punto di vista narrativo. Dal punto di vista del cinema, il lavoro di Rossetto è in ogni caso notevole. Per come ha il coraggio di apporre musiche impensabili su certe sequenze: anche un rock cantato in dialetto stretto veneto. Oppure per come taglia il racconto in sequenze che sembrano staccate, senza voler legare per forza. Come se tutto il film fosse composto di attimi rubati da telecamere esterne. Raramente Rossetto ti fa sentire il “peso” del regista, come fa Sorrentino, con immagini che noti subito per la costruzione, per il rigore. Ma il regista c’è, non c’è dubbio.

E ci sono anche gli attori. Molto brava l’attrice e cantante Maria Roveran, anche autrice e interprete di due brani della colonna sonora del film – tra l’altro, canta anche in cinese. Bravi i due coprotagonisti, Roberta Da Soller e Vladimir Doda. L’autore de “L’aqua zè morta”, di cui si parlava prima, canto tradizionale recuperato e rinnovato, è il compositore vicentino Bepi De Marzi. Brava, ma questo si sapeva, Lucia Mascino, forse l’unico personaggio italiano a portare un po’ di calore, di amore, di vita nei suoi gesti, nella voce, in questo universo desolato.

Daniel Radcliffe: da Harry Potter ad Allen Ginsberg

VENEZIA. Piccoli maghi crescono. Ma non troppo. Daniel Radcliffe esce dagli occhiali tondi di Harry Potter per mettersi un altro paio di occhiali. Neanche tanto diversi. Stavolta, sono quelli di celluloide nera di Allen Ginsberg. Il poeta dell’ “Urlo”, di “Jukebox all’idrogeno”: una delle voci più anarchiche, rivoluzionarie, libere di tutto il Novecento americano. E, ovviamente, uno dei protagonisti della Beat generation.

Il maghetto ha qualche anno in più, mento e naso più aguzzi. E lo stesso mezzo sorriso in stand by, irresoluto e indefinito, con cui ha attraversato i capitoli di una saga che sembrava infinita, quella di “Harry Potter”. Il film del suo sdoganamento si chiama “Kill Your Darlings”, e racconta l’adolescenza di tre moschettieri, future icone della controcultura americana. Ginsberg, Kerouac, Burroughs.

Siamo nel 1944: Ginsberg è una matricola alla Columbia University, Kerouac un giovane reduce dalla Marina militare, Burroughs sperimenta una droga dopo l’altra, con impassibile flemma. E lui è un ragazzino timido, pronto a lasciarsi affascinare dal coraggio, dalla sfrontatezza, dall’euforia trasgressiva dei suoi amici, destinati a diventare la Bohème del Novecento americano, la vera generazione perduta – e rivoluzionaria – della letteratura di tutto il mondo.

Daniel Radcliffe ha accento British, maglietta blu, pallore metafisico. E soprattutto, non ha gli occhiali. Quelli di Harry Potter, e neppure quelli che porta in “Kill Your Darlings”, quando impersona il giovane Ginsberg. Le fan, fuori dal bungalow dove si tiene l’incontro stampa, rumoreggiano, battono alla porta, gridano. E’ il delirio.

Radcliffe, ma lei prima di interpretare il film che cosa sapeva di Allen Ginsberg?
“In realtà, da adolescente, avevo letto solo l’inizio de ‘L’urlo’, la sua poesia più famosa. A quell’età, mi incuriosiva di più Burroughs, ‘Il pasto nudo’. Poi, con l’impegno del film, ho potuto esplorare meglio la sua vita, i suoi scritti, le sue opere. E mi sono piaciute moltissimo. Ho cercato anche di capire che rapporto avesse con sua madre, e con la sua famiglia”.

Come è arrivato al ruolo?
“Il regista, John Krokidas, ha fatto dei colloqui con me. Ci siamo scambiati una serie di dettagli molto personali, durante quelle conversazioni. Abbiamo capito di poterci fidare l’uno dell’altro. Soltanto dopo abbiamo fatto un vero e proprio provino: prima abbiamo capito di essere sulla stessa lunghezza d’onda”.

Non ha avvertito la pressione di interpretare un poeta tanto conosciuto, tanto importante per l’immaginario collettivo americano?
“No. Fosse stato William Butler Yeats, la avrei sentita di più, perché è il mio poeta preferito, e sono un suo fan ossessivo. Ma la pressione in questo caso era solo quella di fare una performance all’altezza”.

Si è chiesto che cosa provocherà nei fan che ha in tutto il mondo questo suo ruolo? Ci sono anche degli aspetti gay del suo personaggio…
“Mah, i fan di ‘Harry Potter’ credo che siano fan dei buoni libri e dei buoni film. Sono incredibilmente grato a tutti loro per il sostegno che mi hanno dato, e non penso che non approveranno la mia scelta di interpretare questo film. Ho fatto cose anche più rischiose ed estreme, e non ho paura”.

Che effetto fa avere tutti questi fan addosso?
“Beh, mica sempre è così, come adesso a Venezia! Comunque queste cose mi accadono da quando avevo undici anni. Ci si fa l’abitudine. E’ una cosa che ti lusinga, ma che non va presa sul serio”.

Chi era Allen Ginsberg nel 1944?
“Era un ragazzino, che pensava che tutti gli altri fossero più intelligenti, più ricchi e più sereni di lui. Un ragazzino che piano piano trova la sua strada, e comincia a pensare di avere delle qualità”.

Il rapporto di Ginsberg con sua madre è molto difficile. E il suo?
“Non è proprio così. I miei genitori sono venuti a Venezia. Anzi, sono qui in questa sala. Chi sono? Non ve lo dirò mai”.

Parkland - Venezia 70

VENEZIA. Si chiama Peter Landesman: è il regista di “Parkland”, presentato in concorso a Venezia. Parkland è il nome dell’ospedale di Dallas. Quello dove, in quel giorno tremendo del 1963 che si doveva scolpire nella storia americana, venne portato d’urgenza John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati Uniti, colpito a morte da Lee Oswald. 

Il film non racconta, per l’ennesima volta, la storia dell’omicidio di Kennedy. Ma si focalizza sulle zone d’ombra, intorno a quella storia mille volte raccontata. Chi era il medico che provò a salvare Kennedy? Che cosa pensava l’unico uomo che filmò l’attentato, con una cinepresa super 8 che aveva appena comprato? Come vissero quella tragedia gli uomini della sicurezza? E quelli dell’Fbi? Tutti gli angoli “non visibili” di una storia fin troppo visibile, e vista. Una scelta molto precisa. Nata dalla volontà di un regista che, prima, per molti anni, ha lavorato come giornalista.

Quale è stato, per lei, il punto di partenza della storia?
“Ci sono storie che rimangono nell’ombra, e ci aiutano a capire eventi complessi e spaventosi. Ogni americano crede di sapere già tutto sull’omicidio di JFK. Io non volevo indagare sul responsabile dell’omicidio. Volevo scoprire la storia delle persone che si sono trovate, in quel momento, in prima linea. E come quella tragedia ha influito sulle vite di persone normali, che si sono trovati ad avere a che fare con il dramma”.

Ma qual è la sua opinione sull’omicidio di JFK?
“Non voglio dire la mia opinione. Non voglio spiegare i fatti, non voglio fare ipotesi o speculazioni. Io mi sono solo attenuto ai fatti”.

Quale valore aveva per lei il filmato di Zapruder, l’uomo che filmò tutto?
“Il suo filmato, negli Stati Uniti, ha avuto un grande valore iconico. E’ stato un punto di riflessione per l’America, e per la cinematografia mondiale, ha dato origine anche a film come ‘Blow up’ di Antonioni: riuscire a scovare i responsabili di un omicidio a partire dalle immagini”.

Come è riuscito a fondere le immagini d’epoca del filmato super 8 con quelle del film?
“Abbiamo lavorato molto per ottenere la stessa grana, con un complesso lavoro in postproduzione. C’erano tre tipi di immagine: quelle d’archivio, quelle girate e poi ‘invecchiate’, e quelle del film vero e proprio”.

Che cosa ha rappresentato quel giorno di novembre del 1963?
“Per molti è stata la morte di una speranza. Ma di fatto, oggi, le nuove generazioni non hanno più quel punto di riferimento. Sono rimasto sorpreso nello scoprire quanto i giovani oggi non sappiano nulla di Kennedy, e di quello che è accaduto. Ma il messaggio del film può riferirsi anche all’Undici settembre o a qualunque situazione analoga”.

Il film mostra tanti piccoli atti di eroismo…
“I medici hanno fatto il loro lavoro di sempre, ma con grandissima dignità. E così molti altri, che si sono impegnati, con quello che avevano a disposizione, con il loro sapere, le loro capacità, nell’emergenza della tragedia. Quando vedo le persone lavorare con dignità, penso che il mondo ha ancora speranza”.

lunedì 2 settembre 2013

"A Fuller Life": Samantha Fuller rende omaggio al padre Samuel.


Presentato ieri, alla 70. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia nella sezione "documentari, "A Fuller Life" si pone come obbiettivo di riassumere la vita di questo particolare regista americano.
Raccontato in dodici capitoli (ognuno narrato in prima persona) da personaggi legati in qualche modo alla figura di Fuller, possiamo citarne alcuni: Jennifer Beals, William Friedkin, James Franco, Tim Roth e Constance Towers, spuntano interessanti aneddoti che partono dall'infanzia (Fuller iniziò adolescente a vendere sigari per le strade di New York, diventando poi giornalista di cronaca nera a soli diciassette anni) fino ad arrivare all'affermata vita cinematografica, passando per la guerra ( si arruolò volontariamente, combattendo anche in Sicilia, Normandia e Germania) in cui Wim Wenders narra un simpatico incontro fra Fuller stesso e la diva Marlene Dietrich, sino all'incontro col celebre tycoon hollywoodiano Darryl F. Zanuck e alla proposta di contratto con la 20th Century Fox, con la quale diresse ben otto film fra il 1951 e il 1957, alcuni divenuti dei veri cult movies (come il caso di "Quaranta pistole" con Barbara Stanwyck o de "La tortura della freccia" con Rod Steiger e Charles Bronson, entrambi del 1957).
Un affettuoso, e mai troppo smielato, omaggio creato dalla figlia Samantha per non far dimenticare (e forse per far riscoprire anche) al pubblico il contributo che Samuel Fuller ha dato alla cultura cinematografica americana e non.

di Francesco Foschini

domenica 1 settembre 2013

Venezia omaggia John Ford

Ieri sera alla 70. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, per il circuito "Venezia classici", è stato proiettato, in versione restaurata da 20th Century Fox e dalla Cineric di New York, il western "Sfida infernale" (My darling Clementine) di John Ford.
Girato nel 1946, con protagonisti una triade d'eccezione composta da: Henry Fonda nei panni di Wyatt Earp, Victor Mature in quelli di Doc Holliday e Linda Darnell nel ruolo di Chihuahua, la bellissima donna di Holliday.
La trama è divenuta ormai un classico: Wyatt Earp accetta di diventare screriffo di Tombstone a causa dell'uccisione del fratello minore James, il tutto condito da una colonna sonora diventata una vera e propria istituzione, a cominciare dalla canzone "Oh my darling Clementine" eseguita nei titoli di testa e riagganciata all'arrivo di Clementine, ex fiamma di Doc Holliday, la quale istigherà le gelosie della bella e sfortunata Chihuahua e che farà battere il cuore di Wyatt Earp fra una sparatoria e l'altra.
Un classico del western che è stato interessante riscoprire.

di Francesco Foschini