di Giovanni Bogani
VENEZIA. Il trionfatore di Venezia è lui, Gianfranco Rosi,
quarantanove anni, documentarista, l’autore di “Sacro Gra”, il film che segue
le vite di alcuni personaggi – desolati, bizzarri, soli – lungo il Grande
raccordo anulare di Roma.
Rosi ha
grandi occhiali tondi, e ricorda un po’ Michael Nyman, il musicista inglese di
“Lezioni di piano”. I suoi film non sono così conosciuti al grande pubblico,
anche se sono stati premiati in molti festival internazionali. Il suo film
precedente, “El sicario”, la sconvolgente confessione di un trafficante di
droga sudamericano, aveva conquistato proprio alla Mostra del cinema di Venezia
il premio Fipresci della critica internazionale, ed era stato votato miglior
documentario italiano dell’anno.
Ma un Leone
d’oro è un’altra cosa. E’ il premio di eccellenza in un festival che vedeva in
competizione grandi maestri, film narrativi tesi, sconvolgenti, scandalosi. E
il suo è un documentario: il primo a vincere un Leone d’oro a Venezia. Un
successo tanto travolgente quanto inaspettato: che farà anticipare l’uscita in
sala del film, già prevista per il 26 settembre.
“E’ qualcosa
che non mi aspettavo”, dice il regista, intercettato all’hotel Excelsior del
Lido di Venezia, poche ore dopo la vittoria. “Sono felice per le persone che
appaiono nel film, per tutti coloro che mi hanno aperto le porte della loro
vita. Quello che vediamo nel film è solo la punta dell’iceberg, di un lavoro
durato tre anni”, ricorda. “C’è moltissimo materiale che non ho potuto montare
nel film, storie che proseguono, altre che sarebbe stato bello raccontare”.
Rosi doveva tornare subito negli Stati Uniti, dove vive: “Invece questa
vittoria mi porta a rimanere in Italia, per seguire l’uscita del film”.
Il cinema
italiano non vinceva a Venezia dal 1998, l’anno di “Così ridevano” di Gianni
Amelio. Quanto avrà influito il fatto che presidente della giuria fosse un
regista italiano di immenso carisma e prestigio come Bernardo Bertolucci? Ad
Alberto Barbera, direttore della Mostra, il compito di rispondere: “Quando c’è
presidente della giuria un italiano e i film italiani non vincono, c’è polemica
perché non sono stati premiati. Quando un film italiano vince, ci si chiede se
sia stato premiato perché è un film italiano. Sono dietrologie assurde.
Semplicemente, nove giurati provenienti da paesi diversi hanno condiviso un
palmarès”.
Gli chiediamo
se il palmarès sia stato condiviso all’unanimità. “No, non è stato un Leone
all’unanimità. Ma non ci sono state contrapposizioni frontali: chi sosteneva
altri film non era contrario al Leone a ‘Santo Gra’. La riunione di giuria è
durata tre ore e mezza. E posso testimoniare che non c’è stata nessuna
manipolazione né prevaricazione da parte
di Bernardo Bertolucci. Così come nessuno dei giurati aveva atteggiamento di
sudditanza verso di lui. Solo il grande rispetto che Bertolucci ha meritato con
tutta la sua carriera”.
Riguardo al
premio per l’attrice Elena Cotta, protagonista di “Via Castellana Bandiera”,
esordiente nel cinema a ottantadue anni, dopo una vita di teatro, Barbera dice
“a proporre il premio per lei sono stati dei giurati stranieri. Si è parlato di
una rosa di tre o quattro attrici, e alla fine si è imposto il nome di Elena
Cotta”.
Colpisce, in
questa edizione della Mostra, l’ossessivo ricorrere – nei film – di un tema:
quello della famiglia disgregata, spappolata, dominata da violenze silenziose
che esplodono. Violenze sulla donna, violenze sulle figlie. Come se molti film
si fossero raccolti attorno a un’idea, a un tema. Per caso. O forse no. “Se
guardate la cronaca nera, non passa giorno che non ci sia una cronaca di
violenza familiare”, dice Alberto Barbera. “Che il cinema intercetti questo
tema è normale. Che ci siano dei film su questi temi non è che una delle
conseguenze della crisi della società. Noi, certo, non abbiamo ‘organizzato’ i
film attorno a un tema. Quando vedi un film, ti piace e non sai di che cosa
parlerà il successivo”.
Sono stati
millecinquecento, dice Barbera, i film visionati. Tra questi, centocinquanta
film di finzione erano italiani, ai quali vanno aggiunti settanta documentari.
“Purtroppo, alla quantità non corrisponde sempre la qualità. Si fanno molti
film, ma girati in fretta, senza fare attenzione alle sceneggiature, con poco
tempo per girare. E alla fine i prodotti non vengono bene. Il cinema italiano
deve ritrovare una qualità media alta: non sarà una singola commediola o
commediaccia a salvarne le sorti. Quella farà solo la fortuna di quel
produttore”.
Uno dei film
italiani di quest’anno, però, gli ha dato un dispiacere: è quello di Daniele
Luchetti, “Anni felici”, che sarà presentato al festival di Toronto. “Daniele
mi ha detto subito: ‘mi dispiace, ma non me la sento di venire a Venezia’. Ha
preferito andare a Toronto. E’ uno strano terrore di venire a Venezia, di
confrontarsi col festival; non lo comprendo appieno, ma lo rispetto. Però è
l’unico film che non è venuto. Oltre a quello di McQueen: Steve mi ha spiegato
che per loro, in questo caso, il mercato americano era troppo importante. Ma è
l’unico regista che mi ha creato un dispiacere”.