giovedì 30 maggio 2013

Travolti da un insolito Giannini

di Giovanni Bogani

FIRENZE. Questo pomeriggio, alle 17.30, alla scuola Immagina di Firenze – borgo della Stella 11 rosso, tra via de’ Serragli e piazza del Carmine – ci sarà un ospite molto speciale, a parlare con gli studenti di recitazione, di regia, di montaggio.

          Era travolto da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, è stato ucciso da Hannibal giù da Palazzo Vecchio, ha dato la voce ad Al Pacino e a Jack Nicholson. E’ Giancarlo Giannini, fuoriclasse del teatro e del cinema italiani. Ha interpretato mille personaggi, diversissimi tra loro, dall’operaio proletario al boss mafioso. Ha fatto commedie italiane e grandi film internazionali. E’ stato candidato all’Oscar come miglior attore nel 1977 per “Pasqualino Settebellezze” di Lina Wertmuller. Ha vinto cinque David di Donatello, quattro Nastri d’argento, quattro Globi d’oro, il premio come miglior attore a Cannes. E forse ce ne siamo dimenticati qualcuno.

Adesso, dopo venticinque anni dal suo primo film da regista, “Ternosecco”, torna dietro la macchina da presa con un film dal titolo che non passa inosservato: “Ti ho cercata in tutti i necrologi”. Il film esce oggi in tutta Italia. Giancarlo Giannini ha scelto Firenze per presentarlo. Sarà questa sera, ad incontrare il pubblico, allo spettacolo delle 2030 al cinema Uci.

          Giannini, ha scelto proprio la Toscana per presentare il film al pubblico. Perché?
          “Perché la amo moltissimo: le mie origini sono pistoiesi, e perché ho una casa tra Lucca e Pisa, dove mi piace tornare appena posso. Che cosa faccio quando sono a casa? Il muratore, il falegname, l’imbianchino, e qualche volta l’ingegnere. Ho un piccolo laboratorio, e mi diverto moltissimo così”.




          Di che cosa parla la storia di “Ti ho cercata in tutti i necrologi”? E quale forza la ha spinta a tornare dietro la macchina da presa, in mezzo a tanti impegni da attore?
          “E’ una storia che ho da parecchio tempo dentro di me. Una storia curiosa, che parte da una vicenda vera. In Africa facevano la ‘caccia all’uomo’. Non contenti dei safari, qualcuno voleva divertirsi di più, e andava a cacciare degli esseri umani. Non è una leggenda, è una cosa che accadeva, e che forse accade ancora. Da lì mi è venuto lo spunto per questa storia”.

          Che cosa accade dunque?
          “Accade che il personaggio che io interpreto diventa un bersaglio. La vittima di un gruppo di ricchi che organizzano battute di caccia all’uomo, per svago. Per una serie di circostanze che non sto a raccontare, vogliono fargli la pelle. E lui incontra una donna. Una donna affascinante, sexy, bugiarda come lo sono tutte le donne. Una donna che gli renderà la vita meravigliosa, e ancora più complicata di quello che non fosse già per lui”.

          Il percorso diventa pericoloso…
          “Molto pericoloso, per lui. Un percorso che diventa quasi un calvario. Con un rapporto molto ambiguo, perverso con la donna che ama. C’è una scena che continua ad affascinarmi, girata nella Monument Valley in Arizona. Scenario da western: e in fondo questo film è anche un omaggio al cinema che ho amato, al western classico”.

          Con lui, sullo schermo, Silvia De Santis, attrice conosciuta sul set di “Vuoti a perdere”, capace di recitare in presa diretta in inglese, lingua in cui il film è stato girato. E poi il premio Oscar F. Murray Abraham, il Salieri di “Amadeus” di Milos Forman.





domenica 26 maggio 2013

Cannes, Kechiche trionfa


di Giovanni Bogani

CANNES. Alla fine vincono loro, le ragazze dell’amore omosessuale di “La vie d’Adèle”, Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos, insieme al regista Abdellatif Kechiche, che le ha dirette filmando in modo così naturale il loro modo di incontrarsi, di mangiare, di fare l’amore.

         Kechiche, origine franco-algerina, parla di libertà. “Quello che conta è la libertà. La libertà di vivere, di esprimersi e di amare. Il mio pensiero va alla bella gioventù francese che mi ha insegnato molto sullo spirito della libertà. E alla rivoluzione tunisina”.

         “Non pensavo proprio di essere premiato a Cannes. Ma per precauzione avevo mandato lo smoking a pulire”, dice il giapponese Kore-Eda, autore di “Tale padre, tale figlio”, film sulla paternità, sull’amore dei figli anche se biologicamente non nostri, che vince il Prix du Jury, dice: “Ringrazio mia moglie, che mi ha reso padre e mi ha fatto riflettere sulla paternità”.

         “Amazing! Straordinario! Sono in auto verso Pasadena, vi chiamo tra mezz’ora!”. Questo è il messaggio sms di Bruce Dern al suo regista Alexander Payne. L’attore, premiato per “Nebraska”, non è  potuto venire, probabilmente perché la discussione sul premio si è protratta fino a poche ore prima della cerimonia finale. Impossibile volare dagli Usa in così  poco tempo.

         Bérénice Bejo è la più emozionata: “Amo il film, amo Ashgar Farhadi, non me lo aspettavo”, e scoppia in lacrime.

         Infine, nella delusione italiana – niente premi a Sorrentino, e neanche a Valeria Golino come opera prima – un premiato italiano c’è. E’ Adriano Valerio, milanese, menzione speciale per i cortometraggi per il suo “37°4 S”. Valerio vive da dieci anni in Francia. “Ma non voglio dire che avrei potuto fare cinema solo qui”, ci dice. “Anzi, adesso sto preparando il mio primo lungometraggio in Italia, in coproduzione con la Romania”.




sabato 25 maggio 2013

Cannes: "The Immigrant" e "Michael Kohlhaas"


di Giovanni Bogani 

CANNES. America, anni ’20. La Terra promessa. Migliaia di esseri umani che arrivano a Ellis Island, la porta dell’America. E lì vengono controllati, in fila, come bestie. Guardano loro gli occhi, i denti, esaminano la loro forza residua, dopo un viaggio estenuante. E se sono malati, li rimandano indietro. O in quarantena.

          Nel film “The Immigrant” – il titolo dice tutto – visto in concorso ieri a Cannes, Marion Cotillard è arrivata dalla Polonia con sua sorella, febbricitante, debilitata dalla tubercolosi. Se la vedrà strappare dalle braccia, trascinata via per mesi, forse rispedita via, in Polonia. E qui inizia tutto. Marion Cotillard riesce ad arrivare di là, a New York, in quella terra promessa che si rivela un inferno in terra. Aiutata – ma è un aiuto non disinteressato – da Joaquim Phoenix, che la spinge a prostituirsi.





          Temi da melodramma, da opera lirica pucciniana o verdiana, quelli di “The Immigrant”. Nella luce polverosa di Darius Khondji, uno dei più grandi direttori di fotografia mondiale, sembra di vedere Violetta o Mimì, in quella Marion Cotillard – bravissima, peraltro – costretta a parlare in polacco per la metà dei suoi dialoghi. Dimessa, abbattuta, impallidita, eppure capace di una determinazione feroce, disposta a prostituirsi per pagare le spese mediche alla sorella, e riabbracciarla. Joaquim Phoenix è un protettore intenerito, ingrugnito, vulnerabile. Il Sogno americano, tutto intorno, è finito nella polvere, tra tabarin di quart’ordine, illusionisti disperati, un Burlesque tragico e sghembo.

          Il film esplora due sentimenti: la necessità di sopravvivere, costi quel che costi. E lo schifo che si può provare verso se stessi, l’odio per quello che si sta facendo, pur continuando a farlo. In questa contraddizione, in questa continua dissonanza e coesistenza di stati d’animo c’è il bello del film. Marion Cotillard, in certi momenti, è dolente, tragica e luminosa come la Marie Falconetti della “Jeanne d’Arc” di Dreyer; e siamo sicuri che non sia un caso.

          Anche il personaggio interpretato da Joaquim Phoenix è pieno di luci e ombre. Forte, ma autodistruttivo; sfruttatore, ma capace di generosità assolute;  minaccioso, ma fragile. Molta l’atmosfera, ma – nonostante due attori straordinari – meno l’emozione. Il film ha un sapore di vecchio che non è dovuto all’ambientazione, ma a qualcos’altro. Si sente, sì, il sapore di “C’era una volta in America” di Sergio Leone e anche delle “Gangs of New York” di Scorsese. Ma c’è, in questo film dalle emozioni color ocra, la sensazione di qualcosa di già visto. Giganteggia, dolente, Joaquim Phoenix. Ma il film non ci dice molto di nuovo sull’America di quegli anni, sul mondo dello spettacolo scadente, visto in modo molto convenzionale, né sull’animo umano. In fondo, stringi stringi, diventa la storia di un’orfanella polacca.




          Curiosamente, in entrambi i film di cui è protagonista qui a Cannes, questo e “”Blood Ties”, Marion Cotillard interpreta un personaggio che si dà alla prostituzione. Lì si trova a parlare in italiano, qui in polacco. “E’ stata la sfida più grande, ho dovuto imparare a memoria venti pagine di copione di cui capivo a malapena due parole”, ha detto Marion Cotillard all’incontro stampa. Bravissima, a dirle in maniera convincente.  

          Se “The Immigrant” è alla fine piuttosto convenzionale, l’altro drammone in costume in concorso ieri, “Michael Kohlhaas” di Arnaud des Pallières, con Mads Mikkelsen, ha dei guizzi di regia fuori dal comune.

La storia è quella di un nobile che, nella Francia del XVI secolo, per una questione di principio – un signorotto armato gli sequestra due cavalli – finisce con lo scatenare una guerra, in cui rischia di perdere tutto e tutti. Gli massacrano la moglie, lui vende tutto per metter su un esercito di disperati, e passare al contrattacco; il suo servo più fedele finirà male. E le sorprese non sono finite.

Mikkelsen affronta un personaggio quasi folle nella sua ostinazione con piglio, dignità e un’espressione sola, alla Clint Eastwood. Ma il film regala allo spettatore attimi di meraviglia pura. Come quando le nuvole pennellano di chiari e scuri un paesaggio, o come quando la figlia del protagonista corre, a perdifiato, tra i boschi, verso casa, presagendo una tragedia che la macchina da presa dice, e fa percepire, prima che si veda una sola goccia di sangue.


venerdì 24 maggio 2013

"La grande bellezza" di Paolo Sorrentino


La grande bellezza
Regia di Paolo Sorrentino.
Con Toni Servillo, Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Pamela Villoresi, Iaia Forte.
Italia, commedia, 2013.
Durata: 142 min.

 di Giovanni Bogani 

         Paolo Sorrentino racconta Roma. E la decadenza dell’Italia, lo sfascio da fine dell’Impero romano. Lo fa attraverso la faccia di Toni Servillo, dandy annoiato e blasé, re di feste da Cafonal su terrazze romane, in un delirio felliniano di musiche impazzite, figure grottesche, cardinali senz’anima. Un manicomio. In cui entrano, come figurine, Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti. E ville antiche, interni monumentali e funerei, un paesaggio umanamente desolante, visivamente lugubre. Cosa manca al film? Una storia. Ma anche un punto di vista umano, un personaggio qualunque che somigli a una persona vera, per pensare che non tutto è perduto, non tutto è fiera delle vanità, una barzelletta assurda che si chiama vita.

** 2 palle

Bobo Rondelli secondo Virzì



di Yuri Baldi

   Il primo documentario di Paolo Virzì è un vero caciucco di storie, panorami, canzoni, personaggi, tutti livornesi veraci. Cucinato alla perfezione. Proprio per quel tocco di genuinità che Virzì, da buon livornese, ha saputo dargli.
   Il regista di grandi successi, come “Ovosodo” e la “Prima cosa bella”, anche stavolta ha omaggiato la sua città, scegliendo come soggetto il proprio amico Bobo Rondelli, incompreso cantante livornese. E chi non conosceva Bobo Rondelli deve ringraziare Virzì per averglielo presentato.
   Con naturalezza, di getto, un documentario biografico mostrato come fosse un backstage, un dietro le quinte che sfiora il reality; per quanto il regista riesce ad entrare nell’intimità dell’artista. Addirittura standogli accanto nel litigio con la moglie, andandolo a trovare a casa da sua madre, fino ad accompagnarlo alla tomba del padre.
   La romantica storia di un musicista raffinato e poliedrico, timido, melanconico, ma anche istrionico e con la battuta sempre pronta. Che è rimasto a Livorno, senza assaporare il successo. Preferendo i concerti in provincia, nei circoli Arci, ai grandi palcoscenici. Virzì indaga, fa uno zoom sulla natura psicologica del personaggio. Il tipico livornese che si vergogna dei propri sentimenti, rinnegandoli, sopprimendoli con una forte impronta comica. Che si guadagna la “stima del cortile” per aver mandato a quel paese i dirigenti della Rai.
   Ma chi è Bobo Rondelli lo si afferra anche dalle tante interviste realizzate. Per l’occasione sono stati convocati sia chi ha lavorato con lui: come il compositore Bollani, l’ex manager Zaccardi e il discografico Pirelli. Sia tutti i livornesi di spicco: dal sindaco Cosimi al cabarettista Migone, dall’attore Ruffini alla cantante Nada e tanti altri. C’è famigliarità nelle inquadrature, disinvoltura nei dialoghi: sembra di stare in mezzo a loro.
   E poi ci sono le canzoni. Autore di testi provocatori e scellerati come “Overdose adventure”, “Giulio” e “Gimme maney”. Ma anche di pura poesia come “Ultima danza” e “Madame Sitrì”. Quest’ultima che, per il suo verso finale, suona quasi profetica della vita del protagonista.
   “Bella Livorno, mi fermo qui”.

giovedì 16 maggio 2013

Cannes. Lolita secondo Ozon


di Giovanni Bogani

CANNES .  Non è  “Lolita”, ma racconta di un’adolescente capace di sconvolgere, diventare un turbine erotico per un uomo maturo. Non è “Bella di giorno”, ma racconta la doppia vita di una donna. Borghese, rispettabile. E prostituta, per scelta. Non è “Io la conoscevo bene”, ma racconta la malinconia irreparabile di un viso esplorato fino allo sfinimento dal regista.




Il volto è quello di Marine Vatch, al suo primo film importante. Una bellezza definitiva, lo sguardo che sembra sempre rivolto ad altro. Il regista è François Ozon, quello di “Nella casa”, adesso nei cinema italiani. Ozon, sismologo delle inquietudini. Fuoriclasse del cinema elegante, estetico, erotico, ma mai banale.

         “Volevo filmare la giovinezza, oggi”, dice il regista. “Il punto di partenza del film è la domanda: che cosa vuol dire avere diciassette anni? L’adolescenza come momento non sentimentale, ma quasi ormonale. Qualche cosa di forte, fisiologicamente, accade in noi. E allo stesso tempo, si è come anestetizzati. La sessualità non è ancora connessa ai sentimenti. La prostituzione era u modo come un altro di esasperare questo aspetto”.

         “La ragazza si prostituisce non per sopravvivere o per pagare i suoi studi, ma perché ne sente un bisogno viscerale”, dice Ozon. “Avrebbe potuto drogarsi o divenire anoressica; l’essenziale era che fosse secreto, clandestino, proibito. A diciassette anni ci si apre al mondo senza considerazioni morali. E’ quel sentimento esaltante che si sente nella poesia di Rimbaud ‘Non si è seri quando si ha diciassette anni’. Prostituendosi, Isabelle fa un’esperienza, un viaggio, che non è forzatamente una perversione”.



         “In un momento cruciale per lei, quando fa l’amore per la prima volta, ho pensato all’idea dello sdoppiamento. E’ una sensazione che si può provare: si è là, ma allo stesso tempo altrove, come un osservatore. Quella scena è fondamentale, perché prepara alla doppia vita di Isabelle”.

         “Nelle scene di sesso – dice Ozon – volevo essere realistico, ma non degradante, né sordido. Non volevo dare giudizi morali. Certo, alcuni clienti hanno delle devianze, ma volevo mostrare come Isabelle vi si adatti. Isabelle è il ricettacolo dei desideri degli altri, sebbene lei non conosca i propri”.

         A interpretare Isabelle, Marine Vatch. “Da quando la ho incontrata, ho visto in lei una estrema fragilità e allo stesso tempo una forza straordinarie”. Lei, Marine, ha un passato di modella e un volto che ricorda la giovane Jane Birkin. E’ già una delle rivelazioni del festival, non c’è dubbio. La sua seduzione è malinconica, distaccata, quasi tragica. “Isabella si prostituisce così come potrebbe drogarsi, per scontrarsi col mondo, per trovare la sua verità. Finisce col saperne di più, rispetto agli altri adolescenti della sua età, e della maggior parte degli adulti che la circondano. E non si scusa, di quello che fa”.

         Nell’auto, con l’amica di famiglia, il suo personaggio dice: “Non sono io ad essere pericolosa”. Chi lo è, allora? “E’ il desiderio che Isabelle suscita che è pericoloso; la sua giovinezza, la sua bellezza, che mettono tutti di fronte ai propri desideri, e alle proprie frustrazioni”.  






Le ragazze cattive di Sofia Coppola


di Giovanni Bogani

CANNES. Oltre a molta pioggia, e a molto freddo, sulla Croisette di Cannes piombano due film a dirci che il mondo è cambiato. E che potremmo non riconoscerlo più. Nel film di Sofia Coppola, “The Bling Ring”, ragazzine alla moda vanno a rubare nelle case di Paris Hilton e di altri vip a Los Angeles, solo per potersi mettere un vestito firmato, un tacco dodici, una borsa firmata. Nel film di François Ozon, “Jeune et jolie”, giovane e carina, una diciassettenne si prostituisce non per bisogno di soldi, ma per scelta, per inquietudine volante non identificata.




         E’ il mosaico di un mondo che non ha più confini tra bene e male. Un mondo in cui l’abito fa il monaco, eccome se fa il monaco. E in cui nient’altro sembra avere importanza. Che cosa conta davvero, per le “ragazze cattive” del film di Sofia Coppola? Il “life style”. Lo stile di vita. I vestiti. Le scarpe. Gli occhiali da sole. La borsa. La pelliccetta. La minigonna. Il cappello. I gioielli. Che cos’è la nostra civiltà? E’ un mosaico di cose possedute. Di armadi, di scatoloni dove mettere scarpe, top, lingerie. Per esibire al mondo chi siamo. E strisce di cocaina, euforia, balli, feste.

Non c’è altro, per un’ora e mezza di film, ritmato e colorato. E’ una specie di “Pulp Fiction” al lucidalabbra. “The Bling Ring” racconta la storia vera di una gang di adolescenti che ha rubato nelle case di Paris Hilton, di Orlando Bloom, di Lindsay Lohan. La fotografia del niente, e del tutto, che ci invadono oggi.

         C’era la folla, la mattina, in fila per vedere  il film, che ha aperto a Cannes la sezione “Un certain regard”. E alla fine, applausi, convinti. Meritati? Da una parte sì. Perché Sofia Coppola ha disegnato un altro dei suoi film color confetto, tutti rosa, celeste e giallo chiaro. E dentro ci ha messo una fotografia inquietante del presente. Il suo primo film, “Il giardino delle vergini suicide”, raccontava di adolescenti bionde, Wasp, americane “di serie A”, e irresistibilmente minate da tendenze all’autodistruzione. Questo suo ultimo film è un giardino delle vergini ladre.

         Dall’altra, si rimane sempre come a guardare da lontano. Non entriamo mai davvero nelle psicologie dei personaggi: un po’ di più in quella del ragazzo, Mark. Uno che se ne sta nella cameretta con scarpe tacco dodici. Ma, per il resto, è un mosaico di figurine. Un caleidoscopio di immagini di contemporaneità. Non c’è sostanza, né dentro le ville dei vip derubati, né nella vita delle ladre. E’ come se tutto fosse svuotato di senso.

         “Avevo sentito parlare della storia del ‘Bling Ring’, ma senza prestarvi particolare attenzione”, dice Sofia Coppola.  “Poi ho letto un articolo su ‘Vanity Fair’ e ho pensato che somigliava già a un film. Soprattutto le parole di questi teenager mi hanno colpito: avevano l’aria di pensare che non avevano fatto niente di male, e si interessavano soprattutto alla notorietà che quei furti avevano portato loro. Ho pensato che questo episodio raccontava molto di che cosa significa crescere nell’epoca di Facebook e Twitter”.

         Adesso le sorelle Neiers, che facevano parte del Bling Ring, hanno il loro show televisivo negli Stati Uniti. Tutto si confonde, bene e male non hanno più confini, conta solo far qualcosa che faccia parlare. Siamo tutti spettatori, siamo tutti protagonisti. Intorno a tutto questo, la città di Los Angeles. Una specie di pianeta affascinante, con le sue luci di notte. Un po’ come nel film “America oggi” di Altman, chissà se qualcuno se lo ricorda ancora.

         Nel gruppo di attrici e attori, l’unica conosciuta è Emma Watson, la Hermione di “Harry Potter”. “Non volevo fare una parodia del personaggio che interpretavo, non volevo giudicarlo”, dice Emma Watson. “Se penso ancora a ‘Harry Potter’? No, fa parte del mio passato, direi. Ma ne sono orgogliosa, e quando la gente mi ferma per quel film mi fa piacere”.




          

          











mercoledì 15 maggio 2013

Cannes / Una giuria che sembra il cast di un film


di Giovanni Bogani

CANNES.  Con i giurati di quest’anno, a Cannes, si farebbe non un film, ma un festival completo. Un’icona della seduzione come Nicole Kidman; il carisma gelido e raffinato di Christoph Waltz. Il mahatma del cinema indiano, l’attore Amitabh Bachchan, e un’altra star di Bollywood come la bellissima Vidya Balan. Infine, la maturità, la ricchezza espressiva, il fascino discreto del cinema francese: Daniel Auteil.

E a dirigere? In giuria c’è non un regista, ma una folla di registi a cinque stelle: il romeno Christian Mungiu, la giapponese Naomi Kawase, la scozzese Lynne Ramsay. E due signori che si sono contesi l’Oscar quest’anno: Ang Lee, il regista di “Vita di Pi”, e mr. Steven Spielberg. Due Oscar vinti come migior regista, un Leone d’oro alla carriera. Il cinema, in una persona sola. Spielberg è anche l’uomo più ricco di Hollywood: nella baia di Cannes c’è il suo yacht, “I sette mari”, lungo 85 metri. Per dire.




        Quarantacinque anni, una bellezza ancora più pura di sempre. Nicole Kidman sembra declinare, nel volto, il significato della parola “perfezione”. Arriva all’incontro stampa con un vestito decolleté nero, i capelli biondi lisci, più corti del solito. “Ma suo marito verrà?”. “Sì, dovrebbe venire domani, con le nostre due figlie”, dice Nicole. Il marito è il cantante neozelandese Keith Urban, padre delle sue due figlie Sunday Rose e Faith Margaret, un passato turbolento di droga e alcol, chiuso per sempre – almeno pare. Negli ultimi mesi, Keith Urban è stato chiamato a far parte di una giuria diversa da quella di Cannes, ma non meno importante: quella di “American Idol”, il talent show americano, l’ “X Factor” a stelle e strisce. “Le ha dato consigli, da giurato a giurata?”, le chiedono. “No, nessun consiglio. Solo incoraggiamento, e sostegno”. Nessuno pensa a chiederle se ha già incontrato Baz Luhrmann, che la ha diretta in “Moulin Rouge” e in “Australia”, e che ha inaugurato il festival con “The Great Gatsby”.

         Meno avaro di parole Steven Spielberg: “Ho accettato da tempo il fatto che i film sono tutti diversi, e che non si possono paragonare mele e arance. Ci sono film nati per il grande pubblico, e film che cercano di cambiare le vite della gente. Quello che faremo non lo chiamerei giudicare, ma tentare di celebrare il cinema, valorizzando temi, culture, diverse idee di regia. Non sarà una gara, ma una celebrazione dell’arte”.

         Sulla sua giuria, mutlietnica e multilingue, dice: “Per fortuna, abbiamo una lingua che ci unisce: quella del cinema. Non sono un esperto di tutti i registi in concorso. Spero solo che i film stessi mi spingano a voler sapere di più su ogni regista. Non li studio prima”.

Preciso il regista romeno Christian Mungiu, che a Cannes ha vinto una Palma d’oro: “In un regista cerco l’onestà e l’originalità. Ognuno ci arriva a modo suo. L’importante è trovarla”. Christoph Waltz, il diabolico ufficiale tedesco di “Bastardi senza gloria”, sorride e dice: “Quando ci sono piombati addosso tutti quei fotografi, mi è sembrato per un attimo di essere alla prima di quel film. E mi sono dimenticato che adesso sono in giuria!”. 
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"Il grande Gatsby", accoglienza fredda a Cannes



di Giovanni Bogani 

Gli applausi alla prima proiezione non sono tutto, no. Possono essere smentiti, o confermati, dalla proiezione successiva. Le sensazioni della stampa internazionale – che a Cannes vede i film al mattino – possono essere diversissime da quelle del pubblico della sera, quello col papillon. Alle proiezioni serali, quelle con tutti gli attori e il regista in sala, il pubblico applaude, si scalda. Alle proiezioni stampa l’atmosfera è sempre un po’ più  fredda. Lì, c’è soprattutto gente che lavora, prende appunti mentali, va a scrivere.

Detto questo, il silenzio che ha accolto stamattina la proiezione stampa del “Grande Gatsby” con Leonardo DiCapio – il film di Baz Luhrmann che ha aperto fuori concorso il sessantaseiesimo festival di Cannes – porta un po’ di vento gelido sul film. Dopo due ore e venti di cinema ruggente e tridimensionale, musiche infinite hip hop, charleston, feste, luci, fuochi d’artificio, colori, pianti, spari, sangue, ecco il silenzio. Forse, anche per il troppo rumore prima. Ci vorrebbe un’aspirina. Anche il pubblico di critici può essere sfinito da quel Luna Park fantasmagorico.  

Fuori dal Palazzo del cinema, invece, non c’è silenzio, ma il delirio di folla per Leonardo DiCaprio. Che dopo quasi vent’anni genera ancora isterie alla “Titanic”. Fotografi, ma anche curiosi: gente che si è portata una seggiola fin dalle nove di mattina per poterlo vedere alle sette di sera, mentre fa la “montée des marches” in abito da sera.

Nella sala stampa, un quarto d’ora dopo, ci sono tutti: dal regista Baz Luhrmann a Tobey Maguire, che nel film è il narratore, ovvero Francis Scott Fitzgerald. E Leonardo DiCaprio, barbetta curata, camicia slacciata, senza cravatta, giacca. Il regista racconta il particolare più commovente: “Alla fine della prima proiezione negli Stati Uniti, mi si è avvicinata una vecchia signora. Mi ha detto: ‘Ho attraversato tutta l’America, per vedere che cosa avrebbe fatto del romanzo di mio nonno. E adesso posso dirle che sarebbe fiero di lei’’.  Era la nipote di Scott Fitzgerald”.

E se il verdetto dei critici europei viene emesso domattina, quello dei critici americani è già apparso. Il film è uscito negli Stati Uniti il 10 maggio, incassando già cinquanta milioni di dollari. E la critica? Spaccata in due. Per i detrattori, è un film che è  “troppo” di tutto: di musica, di velocità, di stile. Per altri, “il film cattura l’essenza del romanzo di Scott Fitzgerald come nessun’altra trasposizione era riuscita a fare. Ma”, aggiunge il critico, “non eccitatevi troppo. L’asticella era molto bassa”.

giovedì 9 maggio 2013

Simone Emiliani: "Il giornalismo cinematografico"


di Aurora Medico 

Scuola Immagina di Firenze, ore 21.30 circa. Stasera è con noi Simone Emiliani, giornalista, critico cinematografico e direttore dal settembre 2012 della webzine (web magazine) cinematografica Sentieri Selvaggi.

Emiliani, 43 anni, stasera si racconterà un po’, parlandoci dei suoi esordi giornalistici e della sua esperienza nel mondo del cinema. Ci spiegherà anche l’evoluzione di Sentieri Selvaggi.

Simone Emiliani è vestito sportivo, cerca di stare composto sulla sedia mentre aspetta le nostre domande, sorride spesso.



Come si è avvinato a questo lavoro?
“Finiti gli studi sapevo di volermi occupare di cinema, ma quando mi proposi come giornalista il settore Spettacolo era già occupato. Dovetti perciò occuparmi di sport per qualche anno. Poi finalmente cominciai a scrivere di cinema per le conferenze stampa e per il Festival di Venezia.
Ho collaborato all’Enciclopedia Treccani e ho scritto per varie riviste cinematografiche, tra cui Filmcritica e Cineforum, fino ad arrivare a Sentieri Selvaggi.”

Come si affronta la gestione di un sito web di critica cinematografica?
“Essere veloci è fondamentale: bisogna cercare di arrivare alla notizia prima degli altri giornalisti. Un sito web va aggiornato ogni giorno, perciò non si può aspettare che sia la notizia a venire da noi.
Infatti noi ogni settimana facciamo il cosiddetto timone (ovvero il totale, in forma schematica, delle pagine previste per il giornale).
Anche la visibilità del sito è fondamentale: essere al primo posto in una ricerca effettuata sul motore di ricerca di Google è un risultato notevole.”

Come immagina il pubblico del futuro?
“Data la diffusione crescente di tecnologie come gli smartphones, iPhones e iPad, stiamo facendo continui aggiornamenti per poter adattare la notizia anche a questi nuovi strumenti. In questi casi è necessaria la brevità e la chiarezza della grafica, in modo da facilitare e velocizzare la lettura dell’articolo. Questi strumenti ci permettono di arrivare ad un pubblico più vasto e variegato.”

Cosa può dirci riguardo alla sua esperienza come insegnante alla Scuola di cinema Sentieri Selvaggi?
“Negli ultimi anni è cambiato anche il modo di insegnare, soprattutto perché è diverso il materiale che ho a disposizione. Prima usavo il DVD; adesso posso utilizzare programmi come YouTube per mostrare degli esempi in classe. Quando si usa Internet bisogna però stare attenti alle fonti a cui si attinge. Il segreto è non fermarsi mai alla prima fonte e verificare sempre la sua attendibilità.”

Come è avvenuto il passaggio da rivista su carta stampata a webzine di Sentieri Selvaggi?
“Noi siamo partiti su carta stampata e avremmo voluto continuare così. Il passaggio è stata una scelta obbligata, avvenuta nel 2000, per ragioni economiche. Comunque devo dire che entrare nel web ci ha dato modo di scoprire e sviluppare questo modo di fare giornalismo prima di molti altri.”

Cosa pensa dei social network?
“Non lo avrei mai detto un paio di anni fa, ma in realtà sono importantissimi perché grazie ad essi riusciamo ad arrivare e molte più persone, permettendoci di uscire dal nostro solito pubblico. Sia Facebook che Twitter sono canali d’informazione veloci ed efficaci.”

Cosa consiglia a chi vuol entrare a far parte della critica?
“Non abbattersi mai e bussare a tutte le porte possibili. Siamo in un periodo di crisi, che però non durerà in eterno. E’ importante avere le idee chiare sul settore in cui si vuole lavorare, ma al tempo stesso bisogna essere flessibili ed adattabili.”







mercoledì 8 maggio 2013

Intervista sul giornalismo cinematografico a Simone Emiliani

Ecco un'intervista video a Simone Emiliani, direttore del web magazine Sentieri selvaggi . Le domande sono poste da tutti gli allievi del Corso di giornalismo della scuola Immagina di Firenze.


Simone Emiliani



Intervista a Simone Emiliani, prima parte

Stremato, dopo l'intervista


Intervista a Simone Emiliani, seconda parte

martedì 7 maggio 2013

Giovani critici in festa

Uno di loro compie mezzo secolo. 
Tra poco non sarà più un problema farlo fuori...
Presso scuola di cinema Immagina, Firenze. 



















lunedì 6 maggio 2013

"Le streghe di Salem", di Rob Zombie


di Sara Materazzetti 

In una moderna Salem Sheri Moon Zombie (moglie del regista Rob) interpreta la DJ radiofonica Heidi, che riceve una misteriosa scatola contenente il vinile di un gruppo che si fa chiamare "I Signori." Durante la messa in onda la musica sembra avere un effetto ipnotico su alcune donne del luogo, compresa Heidi.

La ragazza inizia a fare strani sogni e la proprietaria dell’immobile in cui vive, insieme ad altre due discutibili sorelle, mostra un improvviso interesse per lei.



Il seguito è un racconto abbastanza prevedibile di pura pazzia e scene trash.
Le parti più coinvolgenti ed interessanti del film sono le visioni di Heidi e i flashback delle streghe del passato, sequenze che vengono proposte come sogni, o incubi, in cui il sangue gocciola giù dalle pareti o in cui Sheri Moon cavalca un ariete.

Da menzionare Dee Wallace, Patricia Quinn e Judy Geeson che interpretano le streghe dei nostri giorni, praticamente perfette nei loro ruoli, e Meg Foster che interpreta la strega principale del passato. La Foster è assolutamente credibile in quel ruolo dando quel tocco di bizzarro e di audace al film.
Rob Zombie ha sicuramente cercato di emulare i classici film horror anni settanta, purtroppo il risultato non è dei migliori. Zombie, qui alla regia del suo sesto film, cerca probabilmente una rivalsa nelle sale cinematografiche non americane, dopo il flop di “Halloween 2” (2009), che invece è stato un successo in America. Si nota infatti che vuole omaggiare Kubrick e Argento, ma è stato efficace solo nella grafica del film, la scena del corridoio è praticamente perfetta, ciò che manca sono la suspense, i suoni, il tono che Argento e Kubrick riuscivano a dare ai loro film. Ciò nonostante lo stile del regista è sicuramente maturato, ma forse cerca di dare troppo stile a qualcosa che invece pecca di sostanza.

Sicuramente è un film che dividerà i fan di Zombie, da un lato ci saranno quelli abituati al vecchio stile, che si aspettano qualcosa sullo stile del suo miglior film “La casa del diavolo” (2005) con quell’ideale mix di horror, trash e ironia, da un altro invece, ci sarà chi apprezzerà il cambiamento di rotta preso da questo film che cerca di non essere troppo splatter ma di puntare alla storia.

Io appartengo alla prima categoria.


"Bianca come il latte, rossa come il sangue" di Giacomo Campiotti


di Margherita Barsotti 

Leo, liceale romano, bullo e ribelle solo all’apparenza è follemente innamorato di Beatrice, francese, bella e impossibile. Quando lui è finalmente sul punto di vincere la timidezza e dichiararle il suo amore, il destino si mette di traverso. Beatrice è malata di leucemia e questo inizialmente spaventa Leo che però standole vicino comincerà a crescere.

Bianca come il latte, rossa come il sangue segna il ritorno al cinema del regista Giacomo Campiotti, dopo gli ultimi anni passati a dirigere fiction televisive, quasi tutte a sfondo religioso (Maria di Nazaret, Giuseppe Moscati).



Tratto dall’omonimo romanzo di Alessandro D’Avenia, che è diventato un caso editoriale nel 2010, il film ruota intorno al rapporto tra i due protagonisti toccando temi importanti come fede, amore, amicizia e malattia, anche in maniera brillante e leggera, senza essere mai superficiale.
Quest’opera coniuga alla perfezione il genere della commedia adolescenziale, destinata principalmente ad un pubblico di giovanissimi, col genere drammatico, stile Love Story, in cui inevitabilmente scivolano tutti i film quando uno dei protagonisti deve affrontare problemi di salute.

Filippo Scicchitano (Scialla) interpreta Leo con tutta la passione tipica dell’adolescenza che fa vivere al massimo ogni emozione, da qui la scelta dei colori: per il protagonista le cose sono o bianche o rosse, non ci sono vie di mezzo.

Nonostante una trama non certo priva di momenti di banalità ed a tratti addirittura surreale, grazie anche a scelte registiche azzeccate, il film raggiunge un buon equilibrio tra dramma e commedia, inaugurando forse un nuovo genere cinematografico.

"Qualche nuvola" di Saverio Di Biagio



  di Yuri Baldi 

   Saverio Di Biagio debutta come regista di lungometraggi con “Qualche nuvola”. Presentato alla 68° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, nella sezione Controcampo italiano, il film riesce a suscitare le simpatie del pubblico e ad ottenere l'attenzione, e in molti casi l'entusiasmo, da parte della critica.

   Diego (Michele Alhaique) e Cinzia (Greta Scarano) decidono finalmente di sposarsi. Ma Diego conosce Viola (Aylin Prandi) ed ecco il conflitto del film.



   Mentre Cinzia si preoccupa dei preparativi che continuano inesorabili: la scelta del ristorante, il vestito della sposa, i regali di nozze e i lavori della nuova casa, fino a poco prima “occupata” dalla nonna di Cinzia, e liberata con la sua morte; Diego lavora ad un importante cantiere come muratore, proprio insieme al suocero (Giorgio Colangeli), per poi trovare i suoi momenti paradisiaci durante le ore di straordinario alla casa in costruzione di Viola.

   I personaggi sono ben caratterizzati. Di una Roma genuina e sincera. Maria (Paola Tiziana Cruciani) suocera di Cinzia, Carlo (Pietro Sermoni) il collega di Umberto, gli amici di una vita: Don Franco (Michele Riondino), il malvivente Ivan fino a Barbara “sorella” di Cinzia. Invece le figure appartenenti ad una Roma ricca ed altolocata hanno un tocco più viscido e cinico come l’ingegnere capo-cantiere e  il venditore di mobili, cammeo di Elio Germano. Poi c’è Viola, splendida, ma punto debole del film. Un personaggio vuoto, una storia d’amore esile, basata sul sesso e per nulla approfondita dall’autore. La trama è elementare e sfiora il colpo di scena alla fine; quando Cinzia, sgomenta per aver colto il suo Diego in flagrante, in un attimo di debolezza cede alla tentazione di concedersi alle braccia di Ivan, il quale dimostra tutta la sua etica, nonostante le sue attività illecite, abbracciandola stretta proprio come un amico. Il matrimonio non sarà perfetto come sognato da Cinzia, ma si sa, spesso in cielo c’è qualche nuvola.

   Fa da scenario una Roma di cui Di Biagio non ci mostra le antichità, i luoghi turistici o le grandi ville, ma i quartieri più popolari –come il Quadraro, il raccordo anulare, i palazzi in costruzione, i campi da calcetto moderni e asettici.

   Ritratto della società media italiana sarebbe potuto scadere in un inno alla mediocrità ed invece riesce anche ad appassionare, poiché in fondo elementi di identificazione ce ne sono tanti. La storia scorre liscia grazie ai dialoghi frizzanti in romanesco e, soprattutto, grazie ad un cast di tutto rispetto.

domenica 5 maggio 2013

"Iron Man 3", di Shane Black


 di Giovanni Bogani 

         La cosa più bella del film è Ben Kingsley nel ruolo del Mandarino, terrorista modello bin Laden: quasi un Osama Bin Kingsley. Il resto è ordinaria amministrazione dello straordinario: effetti speciali, esplosioni, e giusto un po’ più di umanità per Robert Downey jr., leggermente sovrappeso e con gli anni che si fanno sentire. Finisce senza armatura, in maglietta, a farsi aiutare da un ragazzino di dieci anni. C’è molta ironia nel film: persino troppa. Spegne la tensione delle scene d’azione. Aspettiamo la prossima battuta, e non il prossimo brivido. 



"Viaggio sola", di Maria Sole Tognazzi


di Giovanni Bogani 

Margherita Buy viaggia sola, va negli hotel a cinque stelle, professionista del lusso. Ma non per goderselo: per lavoro. E' una ispettrice di hotel. Valuta la temperatura dello champagne, i tempi di attesa dal concierge, la gentilezza del personale. Tutto in incognito. 


E' molto brava la regista, Maria Sole Tognazzi, a raccontare gli attimi di “non detto”, gli squarci di verità, di inquietudine. L'insostenibile leggerezza dell'essere single. E anche la difficoltà di essere sposati (Gian Marco Tognazzi e Fabrizia Sacchi, bravi). 

Bella la fotografia di Arnaldo Catinari, tutta giocata su luci morbide e sfocature ad arte. E bello il viaggio che il film ci fa compiere, dalla Toscana a Shangai. 



"Treno di notte per Lisbona" di Bille August


di Caterina Tomassetti  

       Portare al cinema un romanzo, si sa, non è cosa semplice e sono pochi i registi che ci sono davvero riusciti.

            Bille August (“La casa degli spiriti”, “Il senso di Smilla per la neve”) non è nuovo a questo genere di esperienza e stavolta si cimenta con l'omonimo bestseller di Pascal Mercier. Jeremy Irons è il protagonista, il professore svizzero Raimund Gregorius, che una mattina si trova a salvare una giovane donna dal suicidio.
           


  La ragazza, naturalmente, fugge via, lasciando nelle mani del suo salvatore il cappotto con, nelle tasche, un libro portoghese e un biglietto ferroviario per Lisbona. Gregorius si convince che quello è l'avvenimento casuale che può cambiare la sua vita solitaria e spenta.

            Parte così per Lisbona e si mette sulle tracce dell'autore del libro, un medico-filosofo che partecipò alla Resistenza contro Salazar. Attraverso incontri più o meno casuali, riesce a ricostruire episodi della Resistenza e la vita del giovane medico.
            
Purtroppo il film resta impigliato nelle pagine del libro e non decolla mai: sempre troppo verboso, nonostante la bella fotografia, invero un po' calligrafica, di Filip Zurbrenn, che ha il merito però di rendere le dolenti atmosfere di Lisbona con tutta la patina dell'antico.

            Ma la storia del protagonista non prende mai rilievo, non il pur bravo Jeremy Irons, troppo spesso confinato a voce recitante fuori campo, che legge pagine del libro.
            
Per il resto è una passerella di attori, da Charlotte Rampling a Mélanie Laurent, da Jack Huston a Tom Courtenay, da Christopher Lee a Bruno Ganz, come si conviene ad una produzione internazionale.


"Miele", di Valeria Golino


di Elena Caturano

“Nessuno vuole morire veramente, vogliono tutti vivere”. 

Eppure Miele li aiuta ad andarsene, quelli che vorrebbero vivere ma che scelgono di morire, prima che la malattia decida per loro. Miele è una giovane donna che ha abbandonato gli studi di medicina per dedicarsi alla pratica del suicidio assistito sui malati terminali. Finge con famiglia e amici un impiego da ricercatrice universitaria, in realtà fa la spola con il Messico, dove si procura un potente barbiturico di uso veterinario. Poche chiacchiere, molta lucidità. Finché le capiterà un paziente sui generis, che farà vacillare le sue convinzioni, che le presenterà un nuovo punto di vista. 






Dopo aver diretto il corto Armandino e il MADRE ambientato nella sua Napoli, Valeria Golino sceglie per il suo primo lungometraggio da regista un tema complesso e già più volte sperimentato dalla cinematografia internazionale, anche recente (Bella addormentata di Bellocchio, Amour di Haneke). 

La Golino però non si concentra sulle implicazioni sociali o politiche, ma lascia il peso della storia tutto sulle spalle della Trinca, sul suo esclusivo punto di vista. Nella prima scena del film intravediamo la protagonista al lavoro dietro una porta a vetri, riconosciamo solo ombre. È l’impressione che permane durante tutto il film: cogliamo frammenti della storia senza riuscire ad afferrarne l’insieme. L’incontro con Cecchi, settantenne in piena salute che richiede l’intervento di Miele “solo” perché è stanco di vivere, rappresenta la svolta nella trama. Ma ne vediamo solo le conseguenze. 

La parabola emotiva della protagonista è tratteggiata unicamente dai primi piani della Trinca, belli ma non incisivi, e da qualche flash back buttato lì della sua infanzia. I dialoghi tra i due protagonisti sono spesso retorici e poco realistici, anche se l’interpretazione di Cecchi restituisce nell’insieme credibilità al suo personaggio. La Trinca invece rimane in bilico, convincente nel rendere il lato anticonformista della protagonista, meno nel raccontarne il tormento emotivo. Molto suggestiva la colonna sonora, che comprende brani di musica classica, così come canzoni italiane degli anni Cinquanta e musica elettronica. Miele, prodotto dal compagno della regista, Riccardo Scamarcio, parteciperà al prossimo Festival di Cannes nella sezione Un certain regard.


"Nella casa", di François Ozon

di Aurora Medico

Come sarà vivere in quella casa? Il sedicenne Claude se lo è chiesto molte volte, osservando la casa dal parco, seduto su una panchina. Nella casa abita Rapha, un suo compagno di classe. Un giorno, con un pretesto, Claude riesce ad entrare dentro l’abitazione: osserva il comportamento dei suoi tre abitanti (madre, padre e figlio) e l’arredamento. Scrive un tema su questa esperienza per il professore di Lettere, il quale ne resta affascinato. Germain, il professore, incita il ragazzo a continuare a scrivere delle abitudini della famiglia così “borghese” di Rapha.



Il regista francese François Ozon, divenuto celebre in tutta Europa grazie a pellicole come 8 Donne e un mistero (2002) e Il tempo che resta (2005), è oggi nelle sale cinematografiche con il film Nella casa (2012): una commedia ironica che si sviluppa attraverso una struttura tipica dei thrillers (quindi rara per una commedia), capace di creare una forte suspense nello spettatore.

Attraverso il personaggio di Claude (interpretato dal giovane attore esordiente Ernst Umhauer) lo spettatore si trova proiettato in un mondo dove realtà e finzione si mescolano fino a confondersi.
La curiosità morbosa del professor Germain (Fabrice Luchini, esordito nel 1969 e vincitore, come miglior attore non protagonista, al César del 1993) entra in simbiosi con la necessità voyeuristica del giovane scrittore di catturare ogni minimo dettaglio della vita dell’ignara famiglia di Rapha.
La trama si dipana tra manipolazioni reciproche e risvolti a tratti inquietanti. Studente ed insegnante formano un duo esplosivo, incapace di prevedere quali saranno gli sviluppi della storia (reale e immaginaria). I due personaggi diventano inscindibili: non può esistere Claude (il talento naturale) senza Germaine (la conoscenza). E viceversa.