di Giovanni Bogani
VENEZIA. Ha avuto coraggio, Scarlett. Mentre approda al Lido
di Venezia, con una canottiera a righe bianche e nere, pantaloni neri a vita
alta, tacchi a spillo, e quell’aria bionda, luminosa, morbida che ha fatto
innamorare mezzo mondo, pensi al film che ha fatto.
Un film
praticamente senza dialoghi, tutto affidato a lei, ma con un personaggio non
troppo chiaro. Un film in cui l’attrice di “Lost in Translation” e dei film di Woody Allen,
adesso ventisettenne, rischia anche il nudo integrale, in più di una scena. Un
film rischioso perché Scarlett nel film è un’aliena. Non ha disposizione
parole, e quasi sempre deve guardare fisso, nel vuoto. Intorno, il più desolato
dei paesaggi, il vuoto verde e piovoso delle Highlands scozzesi. Un deserto
umido, popolato di uomini soli.
Ha rischiato,
Scarlett. Non c’è romanticismo, nel film. La sua icona di ventenne graziosa qui
l’ha scambiata con un dna di aliena, e con un caschetto di capelli neri. Un
film rischioso, per un progetto al quale lei lavorava, insieme al regista di
videoclip Jonathan Glazer, da almeno otto anni.
Il film,
tratto da un romanzo di Michel Faber, edito in Italia da Einaudi, è già stato
presentato al festival di Telluride, e dopo Venezia sarà proiettato al festival
di Toronto. Qui ha avuto un’accoglienza non troppo felice. I fischi, alla
proiezione stampa, hanno superato gli applausi. Ma quando lei appare
all’incontro con i giornalisti, torna il sole.
Scarlett, come ha affrontato questo
personaggio?
“Non avevo un’idea preconcetta per
prepararmi a questo ruolo. E’ un personaggio che parte come tabula rasa,
essendo un’aliena. Nella prima giornata di set, ho capito dove doveva andare
questo personaggio. Ma mi ci sono volute due settimane per entrare davvero in
lei”.
Qual è, per lei, il tema vero del film?
“Non si fanno film sui temi; si
raccontano delle storie.e questa era già tutta nel romanzo di Michel Faber, da
cui abbiamo tratto il film”.
Ma è vero che avete girato anche con delle
telecamere nascoste, per riprendere le reazioni di persone vere, che avete
inserito nel film?
“Sì. Jonathan Glazer voleva che il
film avesse un aspetto realistico: per questo ha fatto costruire delle
cineprese piccolissime. Ce ne erano otto che riprendevano da punti di vista
diversi. In una scena cado rovinosamente in una buca del marciapiede, Beh, è
interessante notare la reazione della gente: alcuni mi fissavano e continuavano
a camminare; altri mi riprendevano col telefonino, senza aiutarmi. Abbiamo
girato gran parte del film senza che la gente se ne accorgesse”.
Che tipo di esperienza è stata, per lei,
girare questo film?
“Ovviamente,
diversissima da ogni altro film che ho girato. Questo è un esperimento puro,
diverso dal cinema narrativo. Interpretarlo, rispetto ai film più ‘classici’, è
stato come usare dei muscoli diversi che non sapevi di avere. Per me è stata
una sorta di terapia”.
Quale è stata la scena più difficile da
interpretare, per lei?
“E’ stata quella con Adam”. Adam
Pearson non è un attore: è un uomo affetto da neurofibromatosi, una malattia
che provoca tumori benigni che deformano il corpo. Nel suo caso, il volto. In
una parola, Adam è come l’Elephant Man del film di David Lynch. “Adam non è un attore: è stato difficile
farlo sciogliere, prenderlo alla sprovvista mentre non era sulla difensiva. C’è
questa scena in cui io gli carezzo il viso, e il collo: credo che lui, con la
sua ritrosia, cercasse di proteggere la sua vulnerabilità”.
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