mercoledì 4 settembre 2013

Per esempio, Scarlett




di Giovanni Bogani

VENEZIA. Ha avuto coraggio, Scarlett. Mentre approda al Lido di Venezia, con una canottiera a righe bianche e nere, pantaloni neri a vita alta, tacchi a spillo, e quell’aria bionda, luminosa, morbida che ha fatto innamorare mezzo mondo, pensi al film che ha fatto.

         Un film praticamente senza dialoghi, tutto affidato a lei, ma con un personaggio non troppo chiaro. Un film in cui l’attrice di “Lost  in Translation” e dei film di Woody Allen, adesso ventisettenne, rischia anche il nudo integrale, in più di una scena. Un film rischioso perché Scarlett nel film è un’aliena. Non ha disposizione parole, e quasi sempre deve guardare fisso, nel vuoto. Intorno, il più desolato dei paesaggi, il vuoto verde e piovoso delle Highlands scozzesi. Un deserto umido, popolato di uomini soli.

         Ha rischiato, Scarlett. Non c’è romanticismo, nel film. La sua icona di ventenne graziosa qui l’ha scambiata con un dna di aliena, e con un caschetto di capelli neri. Un film rischioso, per un progetto al quale lei lavorava, insieme al regista di videoclip Jonathan Glazer, da almeno otto anni.




         Il film, tratto da un romanzo di Michel Faber, edito in Italia da Einaudi, è già stato presentato al festival di Telluride, e dopo Venezia sarà proiettato al festival di Toronto. Qui ha avuto un’accoglienza non troppo felice. I fischi, alla proiezione stampa, hanno superato gli applausi. Ma quando lei appare all’incontro con i giornalisti, torna il sole. 

         Scarlett, come ha affrontato questo personaggio?
         “Non avevo un’idea preconcetta per prepararmi a questo ruolo. E’ un personaggio che parte come tabula rasa, essendo un’aliena. Nella prima giornata di set, ho capito dove doveva andare questo personaggio. Ma mi ci sono volute due settimane per entrare davvero in lei”.

         Qual è, per lei, il tema vero del film?
         “Non si fanno film sui temi; si raccontano delle storie.e questa era già tutta nel romanzo di Michel Faber, da cui abbiamo tratto il film”.


         Ma è vero che avete girato anche con delle telecamere nascoste, per riprendere le reazioni di persone vere, che avete inserito nel film?
         “Sì. Jonathan Glazer voleva che il film avesse un aspetto realistico: per questo ha fatto costruire delle cineprese piccolissime. Ce ne erano otto che riprendevano da punti di vista diversi. In una scena cado rovinosamente in una buca del marciapiede, Beh, è interessante notare la reazione della gente: alcuni mi fissavano e continuavano a camminare; altri mi riprendevano col telefonino, senza aiutarmi. Abbiamo girato gran parte del film senza che la gente se ne accorgesse”.

         Che tipo di esperienza è stata, per lei, girare questo film?
         “Ovviamente, diversissima da ogni altro film che ho girato. Questo è un esperimento puro, diverso dal cinema narrativo. Interpretarlo, rispetto ai film più ‘classici’, è stato come usare dei muscoli diversi che non sapevi di avere. Per me è stata una sorta di terapia”.

         Quale è stata la scena più difficile da interpretare, per lei?

         “E’ stata quella con Adam”. Adam Pearson non è un attore: è un uomo affetto da neurofibromatosi, una malattia che provoca tumori benigni che deformano il corpo. Nel suo caso, il volto. In una parola, Adam è come l’Elephant Man del film di David Lynch.  “Adam non è un attore: è stato difficile farlo sciogliere, prenderlo alla sprovvista mentre non era sulla difensiva. C’è questa scena in cui io gli carezzo il viso, e il collo: credo che lui, con la sua ritrosia, cercasse di proteggere la sua vulnerabilità”. 



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