domenica 8 settembre 2013

Barbera e champagne (per Rosi)


          di Giovanni Bogani

VENEZIA. Il trionfatore di Venezia è lui, Gianfranco Rosi, quarantanove anni, documentarista, l’autore di “Sacro Gra”, il film che segue le vite di alcuni personaggi – desolati, bizzarri, soli – lungo il Grande raccordo anulare di Roma.  

          Rosi ha grandi occhiali tondi, e ricorda un po’ Michael Nyman, il musicista inglese di “Lezioni di piano”. I suoi film non sono così conosciuti al grande pubblico, anche se sono stati premiati in molti festival internazionali. Il suo film precedente, “El sicario”, la sconvolgente confessione di un trafficante di droga sudamericano, aveva conquistato proprio alla Mostra del cinema di Venezia il premio Fipresci della critica internazionale, ed era stato votato miglior documentario italiano dell’anno.


        

  Ma un Leone d’oro è un’altra cosa. E’ il premio di eccellenza in un festival che vedeva in competizione grandi maestri, film narrativi tesi, sconvolgenti, scandalosi. E il suo è un documentario: il primo a vincere un Leone d’oro a Venezia. Un successo tanto travolgente quanto inaspettato: che farà anticipare l’uscita in sala del film, già prevista per il 26 settembre.

          “E’ qualcosa che non mi aspettavo”, dice il regista, intercettato all’hotel Excelsior del Lido di Venezia, poche ore dopo la vittoria. “Sono felice per le persone che appaiono nel film, per tutti coloro che mi hanno aperto le porte della loro vita. Quello che vediamo nel film è solo la punta dell’iceberg, di un lavoro durato tre anni”, ricorda. “C’è moltissimo materiale che non ho potuto montare nel film, storie che proseguono, altre che sarebbe stato bello raccontare”. Rosi doveva tornare subito negli Stati Uniti, dove vive: “Invece questa vittoria mi porta a rimanere in Italia, per seguire l’uscita del film”.


          Il cinema italiano non vinceva a Venezia dal 1998, l’anno di “Così ridevano” di Gianni Amelio. Quanto avrà influito il fatto che presidente della giuria fosse un regista italiano di immenso carisma e prestigio come Bernardo Bertolucci? Ad Alberto Barbera, direttore della Mostra, il compito di rispondere: “Quando c’è presidente della giuria un italiano e i film italiani non vincono, c’è polemica perché non sono stati premiati. Quando un film italiano vince, ci si chiede se sia stato premiato perché è un film italiano. Sono dietrologie assurde. Semplicemente, nove giurati provenienti da paesi diversi hanno condiviso un palmarès”.

          Gli chiediamo se il palmarès sia stato condiviso all’unanimità. “No, non è stato un Leone all’unanimità. Ma non ci sono state contrapposizioni frontali: chi sosteneva altri film non era contrario al Leone a ‘Santo Gra’. La riunione di giuria è durata tre ore e mezza. E posso testimoniare che non c’è stata nessuna manipolazione né  prevaricazione da parte di Bernardo Bertolucci. Così come nessuno dei giurati aveva atteggiamento di sudditanza verso di lui. Solo il grande rispetto che Bertolucci ha meritato con tutta la sua carriera”.
 
        Riguardo al premio per l’attrice Elena Cotta, protagonista di “Via Castellana Bandiera”, esordiente nel cinema a ottantadue anni, dopo una vita di teatro, Barbera dice “a proporre il premio per lei sono stati dei giurati stranieri. Si è parlato di una rosa di tre o quattro attrici, e alla fine si è imposto il nome di Elena Cotta”. 

          Colpisce, in questa edizione della Mostra, l’ossessivo ricorrere – nei film – di un tema: quello della famiglia disgregata, spappolata, dominata da violenze silenziose che esplodono. Violenze sulla donna, violenze sulle figlie. Come se molti film si fossero raccolti attorno a un’idea, a un tema. Per caso. O forse no. “Se guardate la cronaca nera, non passa giorno che non ci sia una cronaca di violenza familiare”, dice Alberto Barbera. “Che il cinema intercetti questo tema è normale. Che ci siano dei film su questi temi non è che una delle conseguenze della crisi della società. Noi, certo, non abbiamo ‘organizzato’ i film attorno a un tema. Quando vedi un film, ti piace e non sai di che cosa parlerà il successivo”. 

          Sono stati millecinquecento, dice Barbera, i film visionati. Tra questi, centocinquanta film di finzione erano italiani, ai quali vanno aggiunti settanta documentari. “Purtroppo, alla quantità non corrisponde sempre la qualità. Si fanno molti film, ma girati in fretta, senza fare attenzione alle sceneggiature, con poco tempo per girare. E alla fine i prodotti non vengono bene. Il cinema italiano deve ritrovare una qualità media alta: non sarà una singola commediola o commediaccia a salvarne le sorti. Quella farà solo la fortuna di quel produttore”.


          Uno dei film italiani di quest’anno, però, gli ha dato un dispiacere: è quello di Daniele Luchetti, “Anni felici”, che sarà presentato al festival di Toronto. “Daniele mi ha detto subito: ‘mi dispiace, ma non me la sento di venire a Venezia’. Ha preferito andare a Toronto. E’ uno strano terrore di venire a Venezia, di confrontarsi col festival; non lo comprendo appieno, ma lo rispetto. Però è l’unico film che non è venuto. Oltre a quello di McQueen: Steve mi ha spiegato che per loro, in questo caso, il mercato americano era troppo importante. Ma è l’unico regista che mi ha creato un dispiacere”.

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