martedì 3 settembre 2013

Daniel Radcliffe: da Harry Potter ad Allen Ginsberg

VENEZIA. Piccoli maghi crescono. Ma non troppo. Daniel Radcliffe esce dagli occhiali tondi di Harry Potter per mettersi un altro paio di occhiali. Neanche tanto diversi. Stavolta, sono quelli di celluloide nera di Allen Ginsberg. Il poeta dell’ “Urlo”, di “Jukebox all’idrogeno”: una delle voci più anarchiche, rivoluzionarie, libere di tutto il Novecento americano. E, ovviamente, uno dei protagonisti della Beat generation.

Il maghetto ha qualche anno in più, mento e naso più aguzzi. E lo stesso mezzo sorriso in stand by, irresoluto e indefinito, con cui ha attraversato i capitoli di una saga che sembrava infinita, quella di “Harry Potter”. Il film del suo sdoganamento si chiama “Kill Your Darlings”, e racconta l’adolescenza di tre moschettieri, future icone della controcultura americana. Ginsberg, Kerouac, Burroughs.

Siamo nel 1944: Ginsberg è una matricola alla Columbia University, Kerouac un giovane reduce dalla Marina militare, Burroughs sperimenta una droga dopo l’altra, con impassibile flemma. E lui è un ragazzino timido, pronto a lasciarsi affascinare dal coraggio, dalla sfrontatezza, dall’euforia trasgressiva dei suoi amici, destinati a diventare la Bohème del Novecento americano, la vera generazione perduta – e rivoluzionaria – della letteratura di tutto il mondo.

Daniel Radcliffe ha accento British, maglietta blu, pallore metafisico. E soprattutto, non ha gli occhiali. Quelli di Harry Potter, e neppure quelli che porta in “Kill Your Darlings”, quando impersona il giovane Ginsberg. Le fan, fuori dal bungalow dove si tiene l’incontro stampa, rumoreggiano, battono alla porta, gridano. E’ il delirio.

Radcliffe, ma lei prima di interpretare il film che cosa sapeva di Allen Ginsberg?
“In realtà, da adolescente, avevo letto solo l’inizio de ‘L’urlo’, la sua poesia più famosa. A quell’età, mi incuriosiva di più Burroughs, ‘Il pasto nudo’. Poi, con l’impegno del film, ho potuto esplorare meglio la sua vita, i suoi scritti, le sue opere. E mi sono piaciute moltissimo. Ho cercato anche di capire che rapporto avesse con sua madre, e con la sua famiglia”.

Come è arrivato al ruolo?
“Il regista, John Krokidas, ha fatto dei colloqui con me. Ci siamo scambiati una serie di dettagli molto personali, durante quelle conversazioni. Abbiamo capito di poterci fidare l’uno dell’altro. Soltanto dopo abbiamo fatto un vero e proprio provino: prima abbiamo capito di essere sulla stessa lunghezza d’onda”.

Non ha avvertito la pressione di interpretare un poeta tanto conosciuto, tanto importante per l’immaginario collettivo americano?
“No. Fosse stato William Butler Yeats, la avrei sentita di più, perché è il mio poeta preferito, e sono un suo fan ossessivo. Ma la pressione in questo caso era solo quella di fare una performance all’altezza”.

Si è chiesto che cosa provocherà nei fan che ha in tutto il mondo questo suo ruolo? Ci sono anche degli aspetti gay del suo personaggio…
“Mah, i fan di ‘Harry Potter’ credo che siano fan dei buoni libri e dei buoni film. Sono incredibilmente grato a tutti loro per il sostegno che mi hanno dato, e non penso che non approveranno la mia scelta di interpretare questo film. Ho fatto cose anche più rischiose ed estreme, e non ho paura”.

Che effetto fa avere tutti questi fan addosso?
“Beh, mica sempre è così, come adesso a Venezia! Comunque queste cose mi accadono da quando avevo undici anni. Ci si fa l’abitudine. E’ una cosa che ti lusinga, ma che non va presa sul serio”.

Chi era Allen Ginsberg nel 1944?
“Era un ragazzino, che pensava che tutti gli altri fossero più intelligenti, più ricchi e più sereni di lui. Un ragazzino che piano piano trova la sua strada, e comincia a pensare di avere delle qualità”.

Il rapporto di Ginsberg con sua madre è molto difficile. E il suo?
“Non è proprio così. I miei genitori sono venuti a Venezia. Anzi, sono qui in questa sala. Chi sono? Non ve lo dirò mai”.

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