martedì 3 settembre 2013

Piccola patria di Alessandro Rossetto

VENEZIA. Le prime inquadrature sono dall’alto. E mostrano una pianura che sembra infinita. Una strada dritta, che sembra andare senza fine, camion e auto in fila, come in un plastico. Campi coltivati, lamiere di Eternit, capannoni. E un hotel nero come un monolite kubrickiano. La musica che accompagna questa prima sequenza è solenne e terribile, e molto bella. Una specie di coro sinfonico in cui però, piano piano, isoli le parole “Vardate ‘ntorno” e “L’acqua z’è morta desperà”. O qualcosa del genere.

Come, l’acqua è morta? Che cosa significa? Lo scopriremo nel film, “Piccola patria” di Alessandro Rossetto, film d’esordio tagliente e disperato, acuminato come un chiodo. Presentato ieri, e accolto da applausi, nella sezione Orizzonti di Venezia.

L’acqua è morta, perché tutto è morto. I rapporti umani, prima di tutti. Ci sono padri cinquantenni che pagano ragazzine per eccitarsi, e ragazzine che si offrono – a pagamento – per la cosa con assoluta naturalezza. Per gli schèi. Solo per quello. Non ci sono quasi gesti di calore, intese di nessun tipo, in un mondo di lavanderie, di camion, di strade. Una ragazzina si offre per denaro. La sua amica fa lo stesso: e a casa sua, il padre sta eternamente sul divano di casa, senza far niente, maledicendo il mondo e gli stranieri che hanno invaso quell’angolo di Italia.

Si potrebbe dire che la visione del film è fin troppo manichea. Un’Italia di meschini, mediocri, ignoranti, bugiardi per vocazione, che vanno in chiesa e fanno zozzerie inenarrabili a casa. E stranieri – albanesi, in questo caso – che sono buoni, ingenui, inermi. Fa pensare a una sorta di razzismo al contrario.

Dall’altra parte, un’Italia ottusa, tutta Lega e Chiesa, dove i figli - e le figlie – sono fuori controllo, gli uomini adulti sono vigliacchi, prepotenti, pericolosi. Con accenni anche a relazioni incestuose – il cinquantenne che rabbonisce la sorella abbracciandola un po’ troppo – e insomma, tutto il marcio più marcio che c’è. Questa rappresentazione può sembrare eccessiva, fuori dalle righe, ingenerosa. Un mondo di cattiveria, e di incomunicabilità al confronto del quale Antonioni è rose e fiori. Un mondo senza speranza, che ha azzerato ogni umanità.

Questo dal punto di vista narrativo. Dal punto di vista del cinema, il lavoro di Rossetto è in ogni caso notevole. Per come ha il coraggio di apporre musiche impensabili su certe sequenze: anche un rock cantato in dialetto stretto veneto. Oppure per come taglia il racconto in sequenze che sembrano staccate, senza voler legare per forza. Come se tutto il film fosse composto di attimi rubati da telecamere esterne. Raramente Rossetto ti fa sentire il “peso” del regista, come fa Sorrentino, con immagini che noti subito per la costruzione, per il rigore. Ma il regista c’è, non c’è dubbio.

E ci sono anche gli attori. Molto brava l’attrice e cantante Maria Roveran, anche autrice e interprete di due brani della colonna sonora del film – tra l’altro, canta anche in cinese. Bravi i due coprotagonisti, Roberta Da Soller e Vladimir Doda. L’autore de “L’aqua zè morta”, di cui si parlava prima, canto tradizionale recuperato e rinnovato, è il compositore vicentino Bepi De Marzi. Brava, ma questo si sapeva, Lucia Mascino, forse l’unico personaggio italiano a portare un po’ di calore, di amore, di vita nei suoi gesti, nella voce, in questo universo desolato.

Nessun commento:

Posta un commento