VENEZIA. E’ un bel film, “Tracks”, applaudito ieri in concorso alla Mostra del cinema di Venezia. E curiosamente, è il terzo ritratto di una donna ostinata, nei primi giorni del festival di cinema più importante d’Italia.
Il primo era quello tratteggiato da Sandra Bullock in “Gravity”: una donna che, da sola, in mezzo allo spazio, perduta nel nulla, cerca il modo di tornare a casa, con una probabilità su un milione di farcela. La seconda donna ostinata è la protagonista del film italiano in concorso, “Via Castellana Bandiera”: una vecchia che, per non lasciar passare un’auto che viene in senso opposto, ingaggia una battaglia di ostinazione, di sfinimento, di orgoglio che ha del sovrumano.
La terza è lei, la protagonista di “Tracks”. Una ragazza di vent’anni che decide di attraversare il deserto australiano. Da sola, con un cane e quattro cammelli. E basta.
Nel film, questa donna ha il volto bello e quasi infantile di Mia Wasikowska, attrice australiana di origini polacche, ventitré anni, già un piccolo mito per le ragazze che la aspettavano, ieri, diverse ore prima del suo passaggio sul red carpet. La donna che interpreta è esistita davvero: si chiama Robyn Davidson. Quel viaggio, Robyn lo fece nel 1977. Ne tirò fuori un libro, che in Australia è un best seller assoluto.
Un viaggio di tremila chilometri, a piedi, da un posto qualunque pieno di erbacce fino all’Oceano Indiano. Attraverso deserti, terre spaccate dal sole, serpenti, sete, calore. In uno dei territori più secchi e bruciati del mondo. Un viaggio lento, solitario. Ai confini dell’allucinazione. Da una storia così, si può tirar fuori un film noiosissimo o uno entusiasmante. Il regista John Curran è riuscito nella seconda cosa. Mia Wasikowska è brava a non esagerare, a non caricare sul patetico. Va a muso duro, con la paura di una ragazzina e la testardaggine di un maratoneta, nel suo percorso. Affronta i cammelli che deve addestrare, va loro così vicino da rischiare di farsi male. E affronta tutto. Il personaggio, e con lui anche l’attrice.
Il film vi ricorda “Into the Wild”? Vero. Ma non c’è niente di male. Non conta tanto il che cosa si racconta, ma il “come”. E qui, il “come” è quieto, possente, mai troppo lezioso, mai troppo sentimentale, mai inutilmente estetizzante. Quello che non si capisce – e che lascia qualche dubbio su tutto il senso del film – è perché Robyn vada. Quale molla la spinga davvero, quale sia il motivo del suo rischiare la vita per arrivare. Arrivare dove, poi? Che cosa la spinge ad essere una sorta di San Francesco del continente australe, ascetica e ostinata. “Voglio solo essere me stessa”, dice a un certo punto. E: “Mi piacerebbe pensare che una persona normale può esser capace di qualsiasi cosa”. Beh, forse nella sua semplicità, è questo il senso del film. E di ogni grande impresa. Non esistono gli eroi
Il primo era quello tratteggiato da Sandra Bullock in “Gravity”: una donna che, da sola, in mezzo allo spazio, perduta nel nulla, cerca il modo di tornare a casa, con una probabilità su un milione di farcela. La seconda donna ostinata è la protagonista del film italiano in concorso, “Via Castellana Bandiera”: una vecchia che, per non lasciar passare un’auto che viene in senso opposto, ingaggia una battaglia di ostinazione, di sfinimento, di orgoglio che ha del sovrumano.
La terza è lei, la protagonista di “Tracks”. Una ragazza di vent’anni che decide di attraversare il deserto australiano. Da sola, con un cane e quattro cammelli. E basta.
Nel film, questa donna ha il volto bello e quasi infantile di Mia Wasikowska, attrice australiana di origini polacche, ventitré anni, già un piccolo mito per le ragazze che la aspettavano, ieri, diverse ore prima del suo passaggio sul red carpet. La donna che interpreta è esistita davvero: si chiama Robyn Davidson. Quel viaggio, Robyn lo fece nel 1977. Ne tirò fuori un libro, che in Australia è un best seller assoluto.
Un viaggio di tremila chilometri, a piedi, da un posto qualunque pieno di erbacce fino all’Oceano Indiano. Attraverso deserti, terre spaccate dal sole, serpenti, sete, calore. In uno dei territori più secchi e bruciati del mondo. Un viaggio lento, solitario. Ai confini dell’allucinazione. Da una storia così, si può tirar fuori un film noiosissimo o uno entusiasmante. Il regista John Curran è riuscito nella seconda cosa. Mia Wasikowska è brava a non esagerare, a non caricare sul patetico. Va a muso duro, con la paura di una ragazzina e la testardaggine di un maratoneta, nel suo percorso. Affronta i cammelli che deve addestrare, va loro così vicino da rischiare di farsi male. E affronta tutto. Il personaggio, e con lui anche l’attrice.
Il film vi ricorda “Into the Wild”? Vero. Ma non c’è niente di male. Non conta tanto il che cosa si racconta, ma il “come”. E qui, il “come” è quieto, possente, mai troppo lezioso, mai troppo sentimentale, mai inutilmente estetizzante. Quello che non si capisce – e che lascia qualche dubbio su tutto il senso del film – è perché Robyn vada. Quale molla la spinga davvero, quale sia il motivo del suo rischiare la vita per arrivare. Arrivare dove, poi? Che cosa la spinge ad essere una sorta di San Francesco del continente australe, ascetica e ostinata. “Voglio solo essere me stessa”, dice a un certo punto. E: “Mi piacerebbe pensare che una persona normale può esser capace di qualsiasi cosa”. Beh, forse nella sua semplicità, è questo il senso del film. E di ogni grande impresa. Non esistono gli eroi
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