martedì 3 settembre 2013

Parkland - Venezia 70

VENEZIA. Si chiama Peter Landesman: è il regista di “Parkland”, presentato in concorso a Venezia. Parkland è il nome dell’ospedale di Dallas. Quello dove, in quel giorno tremendo del 1963 che si doveva scolpire nella storia americana, venne portato d’urgenza John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati Uniti, colpito a morte da Lee Oswald. 

Il film non racconta, per l’ennesima volta, la storia dell’omicidio di Kennedy. Ma si focalizza sulle zone d’ombra, intorno a quella storia mille volte raccontata. Chi era il medico che provò a salvare Kennedy? Che cosa pensava l’unico uomo che filmò l’attentato, con una cinepresa super 8 che aveva appena comprato? Come vissero quella tragedia gli uomini della sicurezza? E quelli dell’Fbi? Tutti gli angoli “non visibili” di una storia fin troppo visibile, e vista. Una scelta molto precisa. Nata dalla volontà di un regista che, prima, per molti anni, ha lavorato come giornalista.

Quale è stato, per lei, il punto di partenza della storia?
“Ci sono storie che rimangono nell’ombra, e ci aiutano a capire eventi complessi e spaventosi. Ogni americano crede di sapere già tutto sull’omicidio di JFK. Io non volevo indagare sul responsabile dell’omicidio. Volevo scoprire la storia delle persone che si sono trovate, in quel momento, in prima linea. E come quella tragedia ha influito sulle vite di persone normali, che si sono trovati ad avere a che fare con il dramma”.

Ma qual è la sua opinione sull’omicidio di JFK?
“Non voglio dire la mia opinione. Non voglio spiegare i fatti, non voglio fare ipotesi o speculazioni. Io mi sono solo attenuto ai fatti”.

Quale valore aveva per lei il filmato di Zapruder, l’uomo che filmò tutto?
“Il suo filmato, negli Stati Uniti, ha avuto un grande valore iconico. E’ stato un punto di riflessione per l’America, e per la cinematografia mondiale, ha dato origine anche a film come ‘Blow up’ di Antonioni: riuscire a scovare i responsabili di un omicidio a partire dalle immagini”.

Come è riuscito a fondere le immagini d’epoca del filmato super 8 con quelle del film?
“Abbiamo lavorato molto per ottenere la stessa grana, con un complesso lavoro in postproduzione. C’erano tre tipi di immagine: quelle d’archivio, quelle girate e poi ‘invecchiate’, e quelle del film vero e proprio”.

Che cosa ha rappresentato quel giorno di novembre del 1963?
“Per molti è stata la morte di una speranza. Ma di fatto, oggi, le nuove generazioni non hanno più quel punto di riferimento. Sono rimasto sorpreso nello scoprire quanto i giovani oggi non sappiano nulla di Kennedy, e di quello che è accaduto. Ma il messaggio del film può riferirsi anche all’Undici settembre o a qualunque situazione analoga”.

Il film mostra tanti piccoli atti di eroismo…
“I medici hanno fatto il loro lavoro di sempre, ma con grandissima dignità. E così molti altri, che si sono impegnati, con quello che avevano a disposizione, con il loro sapere, le loro capacità, nell’emergenza della tragedia. Quando vedo le persone lavorare con dignità, penso che il mondo ha ancora speranza”.

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