sabato 25 maggio 2013

Cannes: "The Immigrant" e "Michael Kohlhaas"


di Giovanni Bogani 

CANNES. America, anni ’20. La Terra promessa. Migliaia di esseri umani che arrivano a Ellis Island, la porta dell’America. E lì vengono controllati, in fila, come bestie. Guardano loro gli occhi, i denti, esaminano la loro forza residua, dopo un viaggio estenuante. E se sono malati, li rimandano indietro. O in quarantena.

          Nel film “The Immigrant” – il titolo dice tutto – visto in concorso ieri a Cannes, Marion Cotillard è arrivata dalla Polonia con sua sorella, febbricitante, debilitata dalla tubercolosi. Se la vedrà strappare dalle braccia, trascinata via per mesi, forse rispedita via, in Polonia. E qui inizia tutto. Marion Cotillard riesce ad arrivare di là, a New York, in quella terra promessa che si rivela un inferno in terra. Aiutata – ma è un aiuto non disinteressato – da Joaquim Phoenix, che la spinge a prostituirsi.





          Temi da melodramma, da opera lirica pucciniana o verdiana, quelli di “The Immigrant”. Nella luce polverosa di Darius Khondji, uno dei più grandi direttori di fotografia mondiale, sembra di vedere Violetta o Mimì, in quella Marion Cotillard – bravissima, peraltro – costretta a parlare in polacco per la metà dei suoi dialoghi. Dimessa, abbattuta, impallidita, eppure capace di una determinazione feroce, disposta a prostituirsi per pagare le spese mediche alla sorella, e riabbracciarla. Joaquim Phoenix è un protettore intenerito, ingrugnito, vulnerabile. Il Sogno americano, tutto intorno, è finito nella polvere, tra tabarin di quart’ordine, illusionisti disperati, un Burlesque tragico e sghembo.

          Il film esplora due sentimenti: la necessità di sopravvivere, costi quel che costi. E lo schifo che si può provare verso se stessi, l’odio per quello che si sta facendo, pur continuando a farlo. In questa contraddizione, in questa continua dissonanza e coesistenza di stati d’animo c’è il bello del film. Marion Cotillard, in certi momenti, è dolente, tragica e luminosa come la Marie Falconetti della “Jeanne d’Arc” di Dreyer; e siamo sicuri che non sia un caso.

          Anche il personaggio interpretato da Joaquim Phoenix è pieno di luci e ombre. Forte, ma autodistruttivo; sfruttatore, ma capace di generosità assolute;  minaccioso, ma fragile. Molta l’atmosfera, ma – nonostante due attori straordinari – meno l’emozione. Il film ha un sapore di vecchio che non è dovuto all’ambientazione, ma a qualcos’altro. Si sente, sì, il sapore di “C’era una volta in America” di Sergio Leone e anche delle “Gangs of New York” di Scorsese. Ma c’è, in questo film dalle emozioni color ocra, la sensazione di qualcosa di già visto. Giganteggia, dolente, Joaquim Phoenix. Ma il film non ci dice molto di nuovo sull’America di quegli anni, sul mondo dello spettacolo scadente, visto in modo molto convenzionale, né sull’animo umano. In fondo, stringi stringi, diventa la storia di un’orfanella polacca.




          Curiosamente, in entrambi i film di cui è protagonista qui a Cannes, questo e “”Blood Ties”, Marion Cotillard interpreta un personaggio che si dà alla prostituzione. Lì si trova a parlare in italiano, qui in polacco. “E’ stata la sfida più grande, ho dovuto imparare a memoria venti pagine di copione di cui capivo a malapena due parole”, ha detto Marion Cotillard all’incontro stampa. Bravissima, a dirle in maniera convincente.  

          Se “The Immigrant” è alla fine piuttosto convenzionale, l’altro drammone in costume in concorso ieri, “Michael Kohlhaas” di Arnaud des Pallières, con Mads Mikkelsen, ha dei guizzi di regia fuori dal comune.

La storia è quella di un nobile che, nella Francia del XVI secolo, per una questione di principio – un signorotto armato gli sequestra due cavalli – finisce con lo scatenare una guerra, in cui rischia di perdere tutto e tutti. Gli massacrano la moglie, lui vende tutto per metter su un esercito di disperati, e passare al contrattacco; il suo servo più fedele finirà male. E le sorprese non sono finite.

Mikkelsen affronta un personaggio quasi folle nella sua ostinazione con piglio, dignità e un’espressione sola, alla Clint Eastwood. Ma il film regala allo spettatore attimi di meraviglia pura. Come quando le nuvole pennellano di chiari e scuri un paesaggio, o come quando la figlia del protagonista corre, a perdifiato, tra i boschi, verso casa, presagendo una tragedia che la macchina da presa dice, e fa percepire, prima che si veda una sola goccia di sangue.


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